hanno aspettato undici anni prima di dedicarsi a un progetto discografico completamente in italiano. Si chiama, ha richiesto a Ramiro Levy, a Daniel Plentz e a Eduardo Stein Dechtiar due anni di lavoro e una ricerca sempre più improntata al mescolamento delle culture e degli stili.
, ma anche a una lingua che ormai è entrata a far parte non solo del loro quotidiano, ma anche dei loro sogni.: arrivano puntali, indossano un maglione blu e una camicia rossa e anche un gran sorriso che, in questi tempi, non fa mai male.«Intenso. Al di là della pandemia, però, abbiamo voluto fare un disco diverso: volevamo dare il benvenuto al posto che abbiamo scelto, che è l’Italia, e alla lingua italiana, che è ormai parte di noi.
A questo proposito, confermate lo spirito allegro e spensierato dei brasiliani che aiuta a combattere i problemi? «Assolutamente sì. Appena arrivati in Italia, è la prima cosa che abbiamo trovato ascoltando Enzo Jannacci: anche lui parlava di temi seri con quell’ironia pungente che sentiamo molto nostra».«Ci siamo immaginati Dio che ci osserva dal cielo con una sigaretta in mano e il fumo che, in realtà, è una nuvola. Da lì abbiamo riflettuto sul fatto che non importa il credo religioso o politico, ma quello che si fa.
«Negli ultimi qualcosa di italiano c’era: è stato un processo molto graduale che, con gli anni, è venuto sempre più naturale. L’italiano sta pian piano entrando in noi, ha a che fare con l’accettazione, un po’ inconsapevole e un po’ inconscia, del posto in cui sei. Ormai il portoghese lo parliamo solo tra noi: con gli amici e la fidanzata, anche quando si affrontano i rapporti intimi, parliamo italiano».«Un mix.
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