In Centrafrica il 6 febbraio poteva essere un giorno di festa. Due anni prima, il governo dell’attuale Presidente della Repubblica Touadéra, aveva firmato un accordo di pace con 14 gruppi armati per porre fine all’ultimo conflitto interno iniziato nel dicembre 2012. “Ma oggi – ha dichiarato Touadéra il giorno dell’anniversario - invece di celebrare i dividendi della pace, celebriamo l’accordo in un contesto di guerra”.
I disordini sono scoppiati lo scorso dicembre quando, alla vigilia delle elezioni presidenziali e legislative, François Bozizé, ex presidente del Paese deposto nel 2013, è stato eliminato dalla corsa elettorale. Successivamente, sei dei 14 gruppi armati, fagocitati dallo stesso Bozizé, sono usciti dall’accordo di pace e si sono alleati per attaccare le città dell’entroterra, boicottare le elezioni e asfissiare il Paese bloccando l’asse commerciale con il Camerun.
Non è la prima volta che il Centrafrica, ex colonia francese, è in guerra. La sua storia post-coloniale è costellata da colpi di stato, accordi di pace saltati, e dal triste ritornello di essere uno Stato debole in un paese ricco di risorse naturali come oro, diamanti, petrolio, uranio, legno e acqua.
Da tempo, questa presenza ha fatto vociferare sui giornali stranieri, ma anche locali, che al cuore dell’attuale crisi ci sarebbe una sorta di “mini guerra fredda” tra Mosca e Parigi. Ma questa analisi, se per certi versi può essere giusta, non coglie la complessità della situazione.
Sebbene la comunità internazionale e i leader regionali possono aiutare il Paese a uscire dalla crisi, garantendo una sorta di stabilità, sicurezza e mediazione tra i vari attori coinvolti, l’accordo di pace rappresenta l’unico strumento che oggi i centrafricani hanno per riunire e avviare un dialogo inclusivo tra quelle che sono chiamate “le forze vive della nazione”.
Dividere per imperare
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