Buone notizie per le casse di Tim. Ieri, infatti, la Corte d'Appello di Roma ha chiuso in favore del gruppo guidato da Pietro Labriola un contenzioso durato quindici anni relativo alla restituzione del canone concessorio preteso per il 1998, l'anno successivo alla liberalizzazione del settore stabilito da una direttiva europea, e richiesto in restituzione dalla società.
Essendo la sentenza immediatamente esecutiva, Tim ha annunciato nel suo comunicato che avvierà fin da subito la procedura per il recupero dell'importo dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che è stata condannata anche a pagare metà delle spese di lite sostenute da Tim. Musica per il titolo in Borsa che, tra le altre cose, dopo la presentazione del piano industriale post vendita della rete era stato penalizzato da un miliardo di debito in più rispetto alle attese.
I precedenti, tuttavia, non giocano a favore dello Stato perché, con sentenza del 7 settembre 2020, la Cassazione aveva già respinto il ricorso contro la quale «codesta Corte aveva accolto la domanda restitutoria proposta da Vodafone» per la cifra di 49 milioni. Insomma, il supporto di un'altra sentenza rende Tim relativamente tranquilla sui futuri sviluppi processuali.
Per capire meglio la vicenda, però, occorre fare un passo indietro. Fino al 1998 lo Stato ha preteso il pagamento di un canone di concessione alle aziende del settore telecomunicazione che corrispondeva al 3% del fatturato realizzato nell'anno.
L'ultima nel corso del 2020, con la quale la magistratura europea vietava l'applicazione di un canone in percentuale sul fatturato e permetteva solo la richiesta di pagamento dei costi amministrativi connessi al rilascio, alla gestione, al controllo e all'attuazione del regime di autorizzazioni generali e di licenze individuali.
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