Sì, «non sono tifosi, ma criminali», però ne siamo davvero sicuri? La faccia insanguinata di Fabio Grosso dopo l'aggressione di Marsiglia, non è solo disgusto e vergogna per una Francia in allerta terrorismo - come giustamente ha titolato L'Equipe - ma anche l'immagine di uno sport che deriva verso la guerra, e viceversa. Dicono infatti che ciò che succede sui campi di calcio, ma ormai più non solo, risenta di come va il mondo.
In Messico, per esempio, il contatto tra Leclerc e Perez alla prima curva è diventato la scusa per una rissa sugli spalti, con un «dagli al tifoso» ferrarista da parte dei fan di Checo . È vero che in passato pur Senna fu preso a sassate, mentre Vettel fu fischiato a Monza perché vinceva troppo con la Red Bull, ma qui si è passato il limite di uno sport globale entrato tristemente - e non più metaforicamente - nel pallone.
Insomma, come diceva George Orwell, «lo sport è una guerra meno lo sparo», ma di questi tempi neppure quello. Quest'anno al Roland Garros pure il tennis ha scoperto il tifo becero, ed anche i giocatori ultimamente ci hanno messo del loro. Indifferenza al posto della stretta di mano finale tra ucraine e russe, e perfino quasi racchettate, come mesi fa ad Orleans quando la sfida Moutet-Andreev è terminata mani in faccia.
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