quotidianità opprimente di una dittatura ha sempre l’odore e gli arredi di un interno piccolo borghese, senza che questo implichi tuttavia la dimensione del privato, perché la vita è tutta un’interminabile e routinaria ripresa di esterni: le scuole, le fabbriche, gli uffici, i tram. È questo lo sfondo de, il primo romanzo compiuto scritto da Herta Müller, pubblicato a Berlino nel 1992, storia di una Romania mai esplicitamente nominata eppure inconfondibile.
Allo stesso tempo, la potenza di questo libro è esattamente nella capacità di tenere insieme, con la poesia, i pezzi di una storia, di una trama fatta di disperazione e voglia di libertà, di rabbia repressa e urli che squarciano la notte. Proprio come la volpe-tappeto che si trova nel soggiorno di Adina, e che Herta Müller nell’intervista ci ha raccontato essere la sua.
Di brandelli è pieno il libro: biglietti strappati, ricomposti, che non vogliono affogare nell’acqua del water e che vanno allora ripescati, ripiegati, occultati: «Stanno arrestando gente ci sono liste devi nasconderti da me non ti cerca nessuno». Ci sono biglietti in cui si annotano nomi, orari, appuntamenti, addirittura biglietti che una volta scritti finiscono in mani di chi non sa leggere.
Si accende anche la speranza, tuttavia, e non è un caso che si appunti su una canzone. Parla di notte e di oscurità. «È il presidente del paese, si riferisce a lui», chiede l’agente della polizia segreta. «Non si riferisce a nessuno di preciso», gli risponde l’interrogato. «E allora perché la cantate, se non si riferisce a nessuno?».
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