Il mal Paese è l’amico americano

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Il 5 gennaio 1947 un quadrimotore Skymaster dell’U.S. Air Force sbarca Alcide De Gasperi all’aeroporto di Washington. Missione telegraficamente anticipata dal Corriere d’Informazione: «De Gasperi chiederà dollari pane carbone». Con la scienza del poi, vi cogliamo il prodromo del massimo vincolo esterno nella storia d’Italia: l’americano. Il presidente del Consiglio si appresta quel giorno a stringere il primo nodo della cima che ci legherà all’impero a stelle e strisce. Sofferta via crucis che due anni dopo traslerà l’Italia sconfitta, umiliata e affamata nell’alleanza occidentale in gestazione, da formalmente pari. Poco prima di ripartire, confortato dalla calda accoglienza degli italo-americani e dalle attenzioni del presidente Harry Truman, De Gasperi passa letteralmente all’incasso. Appuntamento con il segretario al Tesoro John Snyder, uomo d’affari del profondo Arkansas non entusiasta di ricevere il capo di un governo zeppo di socialcomunisti. Snyder ha pronto un assegno da 50 milioni di dollari, prima metà della cifra concessaci a titolo di risarcimento della garanzia italiana alle “am-lire” stampate dalle truppe di occupazione, che avevano contribuito all’iperinflazione dell’immediato dopoguerra, riducendo di cinquanta volte il valore della nostra moneta. Con gesto paterno Snyder allunga al nostro presidente del Consiglio il titolo di credito. De Gasperi, impacciato, sussurra un «thank you», poi senza guardarlo allunga lo cheque all’ambasciatore Alberto Tarchiani, che l’infila nella tasca interna della giacca, accanto ai suoi denari privati. Tarchiani si era curato che l’operatore della Settimana Incom immortalasse l’evento. Quando qualche giorno dopo in una sala cinematografica italiana scorsero le immagini dello speditivo incasso, alla vista del nostro ambasciatore che si metteva l’assegno in tasca il pubblico scoppiò in grassa risata. Ilarità sicuramente raddoppiata se quegli spettatori avessero saputo del siparietto che aveva preceduto il passaggio di val

Il 5 gennaio 1947 un quadrimotore Skymaster dell’U.S. Air Force sbarca Alcide De Gasperi all’aeroporto di Washington. Missione telegraficamente anticipata dal Corriere d’Informazione: «De Gasperi chiederà dollari pane carbone». Con la scienza del poi, vi cogliamo il prodromo del massimo vincolo esterno nella storia d’Italia: l’americano. Il presidente del Consiglio si appresta quel giorno a stringere il primo nodo della cima che ci legherà all’impero a stelle e strisce.

Tarchiani si era curato che l’operatore della Settimana Incom immortalasse l’evento. Quando qualche giorno dopo in una sala cinematografica italiana scorsero le immagini dello speditivo incasso, alla vista del nostro ambasciatore che si metteva l’assegno in tasca il pubblico scoppiò in grassa risata. Ilarità sicuramente raddoppiata se quegli spettatori avessero saputo del siparietto che aveva preceduto il passaggio di valuta.

Che cosa resta oggi del vincolo con l’America? Nel rapporto transatlantico percepiamo frequenti vuoti d’aria. Tali da generare nella nostra opinione pubblica il sentimento di un’assenza cui non eravamo abituati. E che nella strage da virus ci lascia attoniti. Percepire distratto il padrone di casa autorizza pensieri proibiti. E induce all’errore chi come noi tende a oscillare fra servilismo e furtarelli con destrezza. Oggi più i secondi del primo.

Compito per dopo domani: riunire quei trattini scoloriti. Mollare gli ormeggi ci ridurrebbe passivi nello scontro fra Stati Uniti e Cina, cullandoci in fantasie d’equidistanza. La neutralità è lusso. Si attaglia agli Stati soddisfatti. Sicuri. Noi non lo siamo. Ci conforta la sensazione che se anche volessimo cacciarli gli americani non se ne andrebbero.

 

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