Ma l’abaya mi sembrava un caso diverso: come una vestaglia
, sufficientemente ampia per essere indossata sopra a qualsiasi look ma abbastanza leggera da non ingombrare, morbida e calda come una pashmina, tinta unita o colorata, ricamata, decorata.o su un abito portato con le sneaker, con nonchalance. Io ne avevo adocchiata una nei toni del deserto, con qualche punta di arancio, secondo l’armocromia perfetta per me.
Mi sono avvicinata, ho tastato, sono andata un po’ avanti indietro fingendo indifferenza, poi l’ho provata. Bella. Comoda. Al costo di un paio di jeans. Piegata e pressata entra facile nel trolley.
Un abito non è mai stato solo un pezzo di stoffa per riscaldarci, e questo è il suo bello, comincio a rimuginare . Poi incrocio nei corridoi di redazione la giovane collega dei social con un delizioso kimoncino sopra i jeans. La guardo sovrappensiero – un altro “delitto di moda”? -, lei si accorge e mi previene al volo: “Non va bene? Appropriazione culturale?”., viene dal deserto, da Ostuni, da Kyoto. Ma mai come oggi un vestito manda messaggi che potrebbero non essere i nostri, e tradire le nostre buone intenzioni.
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