Floriana cammina tra i container usati come abitazioni, superando un gruppo di ragazzini che sta giocando a pallone sull’asfalto. Casa sua è l’ultima in fondo: modulo 22, due piccole stanze e un bagno in cui vive con la figlia. Floriana ha 38 anni, viene da Bucarest, in Romania, ma più della metà della sua vita l’ha trascorsa qui, nella periferia est di Napoli. “Quando vivi in un campo rom sei abituato a spostarti, ma non per scelta.
. Il piano conta su una serie di finanziamenti nazionali ed europei per portare avanti progetti su quattro ambiti: casa, scuola, salute, lavoro. “Alcuni fondi sono stati spesi bene, altri male, certi non sono mai stati usati e si sono persi”, spiega Roberto Bortone dell’ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali , coordinatore della strategia.
George, che ha 28 anni, racconta di essere entrato nel centro quando ne aveva 14. “Ho quattro figli, nati tutti all’ospedale qui dietro”, racconta. “Parlano perfettamente italiano, vanno a scuola, ma sono cittadini di serie b: senza residenza non puoi costruirti una vita. Non puoi avere il medico di base, il pediatra, non puoi chiedere l’assegno familiare, non puoi metterti in lista per una casa popolare. Sei senza diritti”.
La vita nel campo ha conseguenze anche sulla salute delle persone: “L’aspettativa di vita si abbassa perché spesso manca la prevenzione, molti rom non hanno il medico di base e l’accesso ai servizi sanitari è più complicato”, spiega Crescenzo Caiazza, infermiere che lavora nell’ambulatorio di Emergency di Napoli Ponticelli.
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