Solo vent'anni fa erano un arma super esclusiva monopolio di paesi come Israele e Stati Uniti capaci di abbinare tecnologie super sofisticate e grandi investimenti in campo militare. Oggi sono l'equivalente del kalashnikov, un'arma semplice e alla portata di tutti, ma capace, se usata bene, di ribaltare le sorti dei conflitti infliggendo colpi dolorosi ad avversari apparentemente superiori.
Quella di ieri non è una novità. I droni houthi avevano già dimostrato la loro micidiale efficacia nel novembre 2019 quando avevano distrutto la raffineria saudita di Abqaiq.
Oltre a garantire preziosi introiti alle dissanguate casse turche i Bayraktar stanno anche ribaltando il rapporto di apparente collaborazione geo-strategica tra Ankara e Mosca. La comparsa sul quadrante ucraino dei droni responsabili delle sconfitte dall'alleato libico e di quello armeno ha allargato le distanze tra Putin e un Erdogan considerato, fino a quel momento, un partner insidioso, ma anche prezioso nell'ambito dello scontro con la Nato.
Ma con la stessa l'efficacia con cui stanno contribuendo a destabilizzare consolidati ordini regionali i droni minacciano anche di amplificare le capacità di gruppi e organizzazioni terroristiche. Già nel 2016 chi scrive fu testimone delle incursioni dei droni dell'Isis usati per sganciare granate da 50 millimetri sulle forze della coalizione intorno a Mosul. In un prossimo futuro gli stessi droni potrebbero essere utilizzati per colpire al cuore le nostre città.
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