«Mica come quello là, che è cattivo, ci piacciono le bambine e io lo voglio picchiare, picchiare, picchiare».
«Col bastone?», chiedo un po’ divertito, un po’ inquieto. «No, col fucile», s’ingrugna lei. «Ma non danno il fucile ai bambini, rischierebbero di fare male alle persone», la rincalzo io. Lei mi guarda. E mastica. Da piccole erano inseparabili. Questo ci sembrava un ulteriore enigma. Era stata Anna ad accompagnarla in quello che noi adolescenti, quando nostra madre tentava di raccontarci il suo passato, avevamo ribattezzato, sghignazzando, “il viaggio della speranza”. Cagionevolissima di salute, si temeva che potesse prendere la tubercolosi: così mia nonna da Torino l’aveva spedita a sei anni a vivere a Sanremo, dove viveva sua sorella col marito.
Sulla sua tovaglia, sul bastone, sulla federa, di mille ricordi che risorgono non c’è mai Anna o gli zii. Talvolta ho pensato che le sue non fossero memorie, ma invenzioni create da giocose e impazzite sinapsi che prima di spegnersi, sprigionano un’ultima scintilla.
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