Jean Paul Sartre lascia da parte la teoria e diventa l’illustre cronista della rivolta di Parigi: lo fa nelle giornate fra il 19 e il 23 agosto del ’44 quando, dopo lo sbarco in Normandia, i tedeschi furono costretti a difendersi e di fatto a preparare l’evacuazione della città che Hitler, com’è noto, voleva fosse rasa al suolo.
Quando la Resistenza proclama l’insurrezione ancora non si sa nulla – ci si limita a sperare e confidare – sui tempi dell’arrivo della Terza Armata americana e sulla divisione blindata del generale Leclerc che secondo gli accordi fra De Gaulle e gli Alleati sarebbe dovuta essere la prima a entrare in Parigi. La situazione è caotica, ma già si sta celebrando una sorta di festa.
Vive in una situazione di eccezione e forse di ebbrezza. In qualche modo il filosofo si ritrova come Fabrizio del Dongo a Waterloo, nel cuore della battaglia ma senza poter cogliere il senso globale di ciò che sta accadendo . Lui, pur con la sua retorica fiammeggiante, sta aderente al dato empirico; descrive, mette insieme i pezzi di un mosaico a venire. Ricorda, se mai, l’Orwell di, nelle pagine sugli scontri fra anarchici e comunisti a Barcellona.
Sono affermazioni, queste, tanto per tornare al parallelo con la Spagna, che mandavano in bestia George Orwell. Il quale, a proposito di un importante libro sartriano sull’antisemitismo,, pubblicato nel ’46 e di cui qui leggiamo quello che sarebbe divenuto il primo capitolo, dopo averlo ricevuto scrisse piccato che considerava il filosofo «un pallone gonfiato».
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