Il progetto è nato da una frase che disse Andrea Copetti durante un workshop: “Everybody has to kill his own father.” Sollevava un tema importante, quello del rapporto con la figura paterna, e in quel momento ho pensato che forse anche io avrei avuto qualcosa da dire a riguardo. Non ho avuto un’infanzia traumatica, anzi, ho avuto una famiglia molto solida e positiva, ma mio padre diciamo che era un po’ “militare”, per lui la disciplina veniva prima di tutto.
Insieme a Jason ho trovato il modo di realizzare un progetto che riflettesse sul rapporto padre-figlia ma in maniera leggera, senza sfumature drammatiche. Penso sia possibile raccontare una storia anche in questo modo, senza prendersi troppo sul serio. Per me è stata la prima volta in cui ho realizzato delle immagini messe in scena. Non vado in cerca di inquadrature particolari, ma ovviamente dirigo il mio compagno nel mettersi in posizione. Ho agito da regista e per me è stato davvero strano, ancora di più se pensiamo che sono stata io, donna, a dirigere il mio compagno, un uomo. E’ stato come prendere in mano lo scettro del potere.
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