«Cinquanta e cinquanta, è un disco ben equilibrato, seppur è bello autobiografico».«Sì, perché alla fine il mio più grande amore è la poesia. La musica è arrivata dopo, per traghettare la poesia fuori dalla mia stanza. Scrivere è solitario. Ok, puoi organizzare reading, ma resta una dimensione chiusa, autoreferenziale. Cantare è condividere. Cantare mi ha salvato dall’isolamento».
Periodicamente qualcuno dichiara: l’indie è morto. E poi qualcun altro lo fa resuscitare. Adesso a che punto siamo? «Siamo al punto in cui i confini tra generi sono meno rigidi. Ed è buono per me che apprezzo le contaminazioni e rinnego le etichette. D’altro canto è diventato difficile trovare dei luoghi che ospitano forme di controcultura musicale, nei quali le persone curiose si incontrano e scoprono nuove band, nuovi suoni. Oggi si va ai concerti, punto e stop. Non ci si affida più alla programmazione di certi spazi che propongono linguaggi meno immediati, meno nazionalpopolari».
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