, dice la teologia. La morte è prolissa, non riesce a concludere mai definitivamente il suo discorso; inventa sempre nuove forme come il linguaggio inventa nuove figure retoriche. Non finisce mai la sua narrazione, ha sempre qualche nuova pezzetta da aggiungere.
Forse la sua incontinenza è anche uno psicofarmaco o un placebo, che aiuta a non vederla sempre intorno; un’endorfina che impedisce di percepire la sua prossimità sempre incombente, la sua potenzialità nelle forme più diverse. La prolissità la svaluta, come accade alla merce in eccesso.
C’è nella storia di molti, di quasi ognuno di noi una prima, fondamentale esperienza della morte, incontrata con l’intensità delle rivelazioni fatali. Molti, molti anni fa ci fu, nella vita fraternamente comune e condivisa del nostro gruppo di amici e di amiche, torinesi di Trieste e triestini di Torino come amavamo chiamarci, una prima morte vissuta non solo da chi era compagno/a figlio/a di Euridice o Alcesti, ma da tutti/e noi come uno squarcio irreparabile nel tessuto della vita.
Eravamo tutti/e là, intorno a quello strappo radicale. I decenni seguiti hanno condotto per mano, con intermittenti strattoni, molti/e di noi nel deserto di chi sopravvive, come disse tanti anni fa Ungaretti in un discorso a Trieste.
La prolissità della morte continua a traboccare nelle nostre stanze come da una tubatura in perdita e a ricordarci, ad ammonirci che nelle prossime settimane o mesi potremo perdere alcuni nostri cari. Ma si parla sempre della morte degli altri, non del loro dispiacere se ad andarmene sarò io.
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