Ma il virus non è uguale per tutti

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Non è vero che siamo tutti uguali davanti al virus.

Non è vero che siamo tutti uguali davanti al virus. L’epidemia ha colpito in modo selettivo nella diffusione del contagio, e ha lavorato in forma profondamente iniqua negli effetti sociali delle misure di contrasto che si sono rese necessarie per contenerla.

L’ha fatto nella prima fase. E lo ripete ora, nella sua seconda ondata. Lo dimostrano le proteste in corso in questi giorni, le loro modalità e i loro protagonisti, un misto di ceto medio produttivo e di marginalità radicalizzata. In ogni caso soggetti, tutti, esasperati da una situazione che sembra colpire al cuore la loro condizione sociale, rendere impossibile il proseguimento della propria attività.

Si pensi al rapporto “centro-periferia”. L’abbiamo visto drammaticamente a Torino, la sera del 26 ottobre, con le boutiques di via Roma saccheggiate da giovanissimi, che non erano certo ristoratori o baristi ma che scendevano dalle barriere verso il centro odiato e invidiato in quanto luogo del consumo opulento. Portatori, evidentemente, di un risentimento sordo e di uno sradicamento profondo, maturato nei quartieri in cui più duro aveva colpito il contagio.

Non possediamo purtroppo i dati torinesi sulla distribuzione topografica del contagio ma quelli milanesi sì, e ci rivelano che nella fase esplosiva della prima ondata il virus in arrivo da sud-ovest, dal lodigiano, aveva bypassato il centro dell’upper class e dell’ex Milano da bere - l’area interna alla cerchia dei viali -, per concentrarsi tra Niguarda, Affori e Quarto Oggiaro, nei quartieri dormitorio del precariato e del residuo lavoro manuale.

Si pensi, d’altra parte, alla questione generazionale: alla frattura apertasi tra giovani, sicuri della propria prestanza fisica e invulnerabilità, e anziani, alla cui tutela molti ragazzi recalcitravano a sacrificare le proprie abitudini ed esigenze di socialità.

 

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