“Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”.
Cosa facciamo quando siamo nei social network, in fondo? Reagiamo, rispondiamo, interagiamo. Fruiamo sì in maniera passiva di contenuti, ma siamo costantemente spinti all’interazione. È scritto nel design stesso delle piattaforme: alla pubblicazione di un contenuto deve corrispondere una risposta, una faccina, un feedback di qualche genere. E non solo, è la progettazione stessa dei social network a incentivare la reazione.
E, per l’uomo dei social network, ogni singolo oggetto di senso è una conversazione: soprattutto se può favorire una reazione. Ogni evento, anche insignificante, è potenzialmente virale, notizia da migliaia di click e commenti. Perché questo design delle piattaforme non è neutrale: altera le nostre percezioni, cambia le priorità, ridisegna i confini stessi di quello che consideriamo importante.
Un sistema, disegnato da una manciata di piattaforme dell’Ovest degli Stati Uniti, che condiziona e orienta in modo sempre più impossibile da ignorare il dibattito pubblico di mezzo mondo.
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