“Non prendertela”, è il consiglio dispensato da un conduttore tv a una giornalista sportiva molestata in diretta . Qualcuno ha visto in quella frase un richiamo amichevole a mostrare la professionalità o l’innata e femminina noblesse oblige, mentre altre e altri l’hanno letta come un invito, complice, alla mansuetudine. Poco importa difendere o accusare il conduttore. È importante, invece, leggere il sistema che sorregge le sue parole e trovare delle leve per scardinarlo.
Il genere conta, è vero: non per determinismo biologico, ma perché anche il campo delle pulsioni è stato intrappolato in costruzioni sociali, aspettative e divieti di genere, e poi posto sotto sorveglianza da una critica sociale e culturale piena d’odio verso tutto ciò che non gli obbedisce. Non a tutte e non a tutti è concesso provare o esprimere le emozioni allo stesso modo, e se la rabbia nei maschi rinvigorisce le aspettative di genere, nelle donne le annulla.
Liquidare come fuori norma alcune azioni significa non riconoscere la violenza oggettiva che le ha causate. E voler mantenere il controllo delle conseguenze significa delegittimarne la matrice, per poi continuare a procedere dritti e senza impacci. Ma, come ci ricorda la poeta Audre Lorde, “nessuna donna ha la responsabilità di cambiare la psiche al suo oppressore”, né può “nascondere” la rabbia per non ferirne i sentimenti. È una specie di imperativo morale.
In modo speculare, ma ugualmente annichilente, la rabbia può trasformare in un feticcio sessuale. Basti pensare alle rappresentazioni delle Amazzoni, delle eroine di alcuni film o alle immagini scelte per mostrare al mondo le combattenti curde delle Unità di protezione delle donne . Le donne hanno una posizione strategica perché sono state sia incluse nel contratto sociale sia escluse, come uguali ma diverse. In questo contratto parte della violenza che è consegnata allo stato resta comunque a disposizione degli uomini, che la possono esercitare contro le donne nel loro privato.
E non sento come alleati quei femminismi che mentre fanno divulgazione capitalizzano a uso personale le istanze femministe più radicali. Infine, non sento come alleati quei femminismi fondati su politiche identitarie, che parlano a nome di un’astrazione , che non riconoscono nel binarismo di genere la vera trappola e che si muovono ripiegati sul loro ombelico, in un territorio disegnato dall’alto, e da altri.
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