Colpo di scena: la Cassazione nella sua composizione più solenne, a sezioni penali unite, ha deciso che non è reato coltivarsi in casa la cannabis, purché sia in minima quantità e per stretto uso personale. Chi la coltivasse in forma più estesa per cederla, anche gratuitamente, continuerà a commettere un reato.
Decisione coraggiosa, non c’è dubbio. La Cassazione ha infatti riconosciuto che il bene giuridico della salute pubblica non è pregiudicato dal singolo che decide di coltivare per sé qualche piantina di marijuana. E così la giurisprudenza non fa altro che riconoscere lo spirito dei tempi: i kit per la coltivazione dei semi di cannabis sul balcone di casa ormai sono diffusissimi, si comprano perfino su internet, anche se ciò era del tutto illegale.
Con questa decisione, invece, la Cassazione, pur ribadendo che è reato la coltivazione, ha aperto la porta all’autoproduzione qualora «le attività di coltivazione di minime dimensioni, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti» siano chiari indici di un uso personale del coltivatore.
I primi ad accorgersi della sentenza sono stati quei politici che da sempre spingono per la liberalizzazione della cannabis. Il radicale Riccardo Magi, ad esempio: «La Cassazione ha fatto valere il buon senso e la logica con l'equiparazione della coltivazione per uso personale al consumo, ora tocca al Parlamento». Oppure Benedetto Della Vedova: «Si rompe un tabù.
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