Robert Doisneau, il fotografo del bacio nella Parigi del dopoguerra, diceva del suo lavoro: «Il mondo che cercavo di far vedere era un mondo dove stavo bene, dove la gente era gentile e dove trovavo la tenerezza di cui avevo bisogno. Le mieRobert Capa, grande fotografo di guerra morto su una mina in Vietnam, diceva del suo lavoro: «La guerra è come un’attrice che invecchia. È sempre meno fotogenica e sempre più pericolosa».
Mario Amato nacque il 24 novembre del 1937 a Palermo. Il 23 giugno del 1980 venne assassinato dai Nar Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini Così i suoi occhi, aiutati dal teleobiettivo, si fissano su una scarpa, la sinistra, che spunta dal lenzuolo. Sulla punta c’è un buco. Un buco, come nelle descrizioni di Dickens o nei fumetti di Pippo. Forrest Gump diceva: «Mia mamma mi ha insegnato che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose: dove va, cosa fa, dove è stata».
Quel buco, quella palina di un autobus dicono molto, ma non tutto. Dicono di un uomo attaccato al lavoro, vissuto come una missione, dicono di chi non vuole perdere tempo, né occupandosi delle suole di una scarpa logora né aspettando una macchina pigra. Oggi Giovanni Canzio, presidente emerito della Cassazione e magistrato che si occupava di terrorismo a Rieti, mi dice: «Mario era isolato. Fu lasciato solo. Sapeva di essere minacciato, le indagini sul terrorismo nero erano molto pericolose». E aggiunge: «Quando fu ucciso io provai un grande dolore, ma non fui sorpreso. Noi avevamo la sensazione di non avere dalla nostra parte l’intero Stato. C’era chi remava contro. E chi toccava quei fili rischiava».
Valerio Fioravanti dirà: «Noi scegliemmo Amato come simbolo dello Stato per addivenire ad una rottura con quelle forze dello Stato stesso a cui eravamo “simpatici”, fino a quel momento, poiché ci consideravano “figli della borghesia” lasciandoci “fare” e scorrazzare liberamente per tutta Roma». Amato, prima dell’assassinio, è assediato. Giovanni Canzio racconta che andava a casa sua con dei pesantissimi fardelli di bobine che voleva ascoltare personalmente: «Non mi fido, possono non trascriverle per intero». Sergio lo ricorda nel suo studio in casa, con delle gigantesche cuffie sulle orecchie mentre ascolta le intercettazioni.
Amato non voleva essere solo, voleva aiuto. Voleva essere affiancato. Dice, con drammaticità in audizione: «Ricordo, a tal proposito, una riunione piuttosto spiacevole in cui il Capo disse che “il mio problema“ era risolto perché vi erano due volontari senza, peraltro, farne il nome.
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