Il 15 giugno 1979 usciva Boys don't cry. Il 16 giugno 2019, 40 anni dopo, quel brano, all'epoca quasi ignorato dal pubblico e finito in classifica solo in Australia, ha chiuso il concerto, unica data italiana, dei Cure al Firenze Rocks.
La scenografia è minimale, non servono luci, né artifici. Basta la presenza scenica ingombrante della band, composta da Simon Gallup al basso, Jason Cooper alla batteria, Roger O'Donnell alle tastiere e Reeves Gabrels alle chitarre. E da Robert Smith, mai così incredibilmente empatico. Gli occhi bistrati e il rossetto sbavato, i capelli spettinati, gli abiti neri che lo hanno reso iconico. Sul palco è possente.
Si parte con la frustata dark di 'Shake dog shake' che già la dice lunga poi c'è spazio per le sinfonie dell'album capolavoro della seconda parte della carriera dei Cure, 'Disintegration', su tutte la struggente Lovesong, e del suo successore 'Wish'. Poi arriva il pop, dolce-amaro, incorporato a dovere negli anni nel sound e le atmosfere post punk."In Between days", 'Play for Today', 'One hundred years'.
Si chiude così, con Robert Smith che dice"Thank you" e si guarda attorno concedendosi al pubblico prima di sparire, la terza edizione di Firenze Rocks. E non poteva esserci modo migliore di calare il sipario. Quattro giorni di musica per un totale di quasi 30 ore e 200 mila spettatori, su una macchina ormai rodata che tiene bene nonostante i tanti eventi previsti in contemporanea in città, uno su tutti gli appuntamenti di Pitti. Appuntamento al 2020.
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