Il 10 febbraio è la data ufficialmente scelta per il Giorno del Ricordo, in cui la memoria collettiva si raccoglie a riflettere intorno ai drammatici eventi che - tra il 1943 e il 1945 - segnarono la storia del nostro confine orientale. È una data che, come molte tra quelle legate alle tragedie del ’900, divide invece di unire, acuisce le lacerazioni invece che sanarle.
In realtà le foibe vanno riferite a due distinti momenti cronologici. Il primo è quello immediatamente successivo all’8 settembre 1943, quando, dopo il tracollo dell’esercito fascista, l’Istria si affollò di focolai di rivolta, in un pauroso intreccio di rancori politici e personali, nel solco di secolari odi etnici e del tradizionale conflitto tra città e campagna.
Il secondo momento è quello del maggio ’45, dopo l’ingresso delle truppe dei comunisti titini a Trieste e Gorizia. Dalla spontaneità si passò all’organizzazione. Ad agire questa volta fu principalmente la polizia politica jugoslava che aprì la caccia ai «nemici del popolo». Si parla di 3000-4000 vittime. Sappiamo di affogati in mare e di esecuzioni sommarie sul ciglio della strada, sull’uscio di casa o all’angolo della via.
Sia la prima sia la seconda fase non c’entrano niente con il 10 febbraio, scelto per legge nel 2004 come Giorno del Ricordo. Nel dibattito in Parlamento fu allora il senatore Servello, ex militante del Msi, a illustrare le ragioni di quella scelta, ricordando che si trattava del giorno del Trattato di Parigi «che impose all’Italia la mutilazione delle terre adriatiche».
Le foibe furono sciagura nazionale. Il negazionismo della sinistra radical chic rinnova il crimine perpetrato in quegli anni.
si parla almeno di 10.000 slavi, per non parlare dei morti nei campi di concentramento italiani e delle migliaia di vittime fucilate o durante gli incendi appiccati nei villaggi slavi dai fascisti.
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