Le paure del Piemonte sull’acciaio: “Pagheremo noi il prezzo della crisi” - La Stampa

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Le paure del Piemonte sull’acciaio: “Pagheremo noi il prezzo della crisi”

TORINO. C’è un filo diretto tra il Piemonte e l’ex Ilva di Taranto. E gli imprenditori guardano con ansia alle mosse del governo e del colosso franco-indiano dell’acciaio. Perché Torino, già in difficoltà per la flessione delle vendite del settore automotive, senza quell’acciaio si troverebbe attanagliata da una crisi partita dal basso, dalla materia prima che aumenterebbe i costi per le imprese e finirebbe per frenare ancora di più il manifatturiero.

I venti delle trattative sono carichi di tensioni e timori, e non solo per gli operai degli stabilimenti di Novi Ligure e Racconigi dove lavorano rispettivamente 681 e 134 persone, ma per tutta la manifattura, sia che si tratti di imprese che si riforniscono da ArcelorMittal, sia di fornitori del gruppo che aveva investito nell'impianto in passato gestito dalla famiglia Riva.

«Ci saranno sicuramente delle conseguenze per tutta l'industria, ci possono essere conseguenze anche in settori apparentemente lontani. Il primo impatto sarà la complicazione degli approvigionamenti e, andando a cercare forniture estere, ne risente la bilancia commerciale», sottolinea il presidente dell’Unione Industriale torinese, Dario Gallina.

Accanto a questi aspetti tecnici c’è anche un problema sottolineato dagli industriali legato alla perdita di credibilità agli occhi degli investitori internazionali in un momento in cui Torino scommette nell’attrazione di capitali dall’estero.

Al di là del singolo caso, siamo agli albori di una fusione tra Fca e Psa, siamo sicuri che non possano esserci conseguenze indirette anche su coloro che vogliono rimanere in Italia?». Non è solo un problema di materie prime, è un problema di visione industriale

 

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