Questo articolo è pubblicato sul numero 23 di Vanity Fair in edicola fino al 8 giugno 2021
C’è un attimo, quando il gong che dà inizio allo spettacolo risuona nella cava millenaria e il sole comincia la discesa verso il tramonto, in cui sembra di sentire all’unisono il sussulto dei cuori. Perché qui a Siracusa non si tratta soltanto di assistere a una formidabile recita, non si tratta di stringere il solito patto magico con il teatro: lo so che state fingendo, ma ci credo. Qui lo spettatore in quell’attimo salta d’un balzo a duemila e cinquecento anni fa.
E si ritrova lì, inchiodato al suo scomodo posto sulle pietre, risucchiato dentro la Grecia antica come dentro a una macchina del tempo, come se avesse peplo, chitone, mantello, ad ascoltare le parole eterne di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, a straziarsi il cuore per Medea, la madre che uccide i suoi figli, a soffrire accanto ad Antigone, l’eroina che sfida il potere pur di seppellire il fratello; a smarrirsi insieme a Edipo, l’uomo ignaro di se stesso come lo siamo tutti, a piangere...
Ci si ritrova nudi, senza vergogna di ridere e di piangere accanto al vicino di cavea che pure ride e piange, immemori del quotidiano, proiettati nell’eterno. A fare pulizia dei propri dolori, ad affrontare le proprie paure, a elaborare le proprie sconfitte. Gli antichi la chiamavano catarsi.
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