SHANGHAI. «Mi sono alzata dal letto e le ginocchia hanno ceduto. Potevo solo strisciare, faticavo a respirare e tossivo sangue». Shanghai, 4 gennaio: i casi di polmonite cominciano ad aumentare, ma i medici che sospettano un’epidemia virale vengono diffidati dalla polizia. Il racconto è di Andrea Barnett Asche, 39 anni, americana. Ha trascorso gli ultimi anni a Torino e in agosto si è trasferita in Cina con i tre figli per seguire il marito Jan, manager di Gm.
«Ho detto a mio marito di portarmi in ospedale, lui mi ha messo su una sedia da ufficio con le rotelle per portarmi via più in fretta. Ho smesso di respirare, stavo diventando bluastra. Jan mi ha scosso e mi sono un po’ ripresa».E’ un caso gravissimo di polmonite. Per i medici del First Peoples Hospital di Shanghai, però, l’origine è un batterio e scatta la caccia all’antibiotico giusto. «Sono giovane e relativamente robusta, non pensavo alla morte.
«Quando mi sono svegliata da otto giorni di coma indotto - prosegue il racconto - la prima cosa che non capivo è perché non riuscissi a parlare. Mi avevano fatto la tracheotomia, ecco perché. Ed ero attaccata a un apparecchio per la dialisi, avevo un catetere e l’ossigeno. Prima che potessi alzarmi sono passati giorni, ed è stato uno sforzo enorme. La mia massa muscolare se n’era andata».
Trascorsi 32 giorni in terapia intensiva, i medici autorizzano il trasferimento. Il viaggio di ritorno al paese di origine, Ann Arbor, in Michigan, dura quattro trasferimenti in ambulanza, due voli, tre passaggi in sedia a rotelle, un totale di 30 ore con l’assistenza di quattro tra medici e infermieri. Alla fine Andrea fa una promessa: «Siamo grati ai medici cinesi. Torneremo a Shanghai quando l’epidemia sarà finita».
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