ha commemorato a mala pena il decennale dell’uscita di scena del dittatore Ben Ali. Il 25 gennaio tocca all’Egitto non celebrare la ricorrenza: esattamente dieci anni fa, ispirati dagli eventi tunisini, alcuni attivisti organizzarono su Facebook una manifestazione in piazza Tahrir, al Cairo. Meno di tre settimane dopo, il presidente Hosni Mubarak lasciava il potere.
In questi due paesi, avanguardie di quella che più nessuno chiama “primavera araba”, la rivoluzione è fallita. In Tunisia – ormai da molte settimane nelle città sinistrate dell’interno e dalla settimana scorsa nella capitale – i giovani manifestanti si scontrano con le forze dell’ordine. Questa esplosone di violenza è una conseguenza dell’esasperazione per le promesse di cambiamento disattese.
In Egitto lo scenario è quello della controrivoluzione, incarnata dal maresciallo Abdel Fattah al Sisi, che ha instaurato un regimedi quello di Mubarak. L’esercito di Al Sisi era entrato in scena contro i Fratelli musulmani, per poi estendere la sua morsa autoritaria a tutta la società civile al minimo accenno di contestazione. Siamo agli antipodi degli ideali del 2011, insomma.
Anni di lotte politiche, confusione e pulsioni contraddittorie non hanno portato tanto a un “inverno islamista” dopo la primavera del popolo, come vuole un cliché duro a morire, quanto piuttosto a un ritorno in forze del dispotismo, o nel caso singolare della Tunisia di una democrazia abbozzata che si avvicina al populismo.
È questa la “fine della storia”? No di certo, anche se va detto che la seconda ondata di movimenti popolari, in
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