Il COVID19 ha messo in grave difficoltà anche tanti musei in tutto il mondo. Nei giorni scorsi, uno studio UNESCO ed uno studio ICOM hanno rilevato che circa il 90%, o più di 85.000 istituzioni, hanno chiuso le porte per diverse settimane, e il 13% potrebbe non aprire mai più.
“Chi non sperimenta, muore”: se fino a poche settimane fa sembrava una frase motivazionale ad effetto, adesso è la brutale verità. Le regole del gioco cambiano; le esigenze e le priorità mutano, una nuova normalità si crea. C’è bisogno di capire le nuove abitudini dei consumatori, studiare e farsi contaminare da altri settori, scambiandosi strategie e strumenti.
Anche al di fuori del mondo della cultura, molte aziende provano a riaprire con risorse limitate e ostacoli burocratici, continuando a interrogarsi su come sfruttare a proprio favore questo periodo di distanziamento sociale. Alcuni esempi di innovazione strategica e marketing resiliente arrivano – paradossalmente o forse no – dagli spazi espositivi in cui si conservano l’arte e la cultura del pas-sato.
D’altronde, il growth hacking non ha la soluzione miracolosa per i musei, ma conosce l’altra faccia della medaglia: quella della trasformazione delle imprese e di ciò che il digitale può fare. Il growth hacking non può promettere nulla, ma può dimostrare di avere un processo. È un
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