17 novembre 2019 - 08:16

Intervista a Dino Meneghin: «I miei 70 anni, i successi e quel rammarico per mio figlio Andrea»

Martedì l’Olimpia Milano ritirerà la maglia numero 11 appartenuta alla leggenda

di Daniele Dallera e Flavio Vanetti

Intervista a Dino Meneghin: «I miei 70 anni, i successi e quel rammarico per mio figlio Andrea»
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Si parte bene con Dino Meneghin, ci si sente comodi a parlare con lui, sa raccontare una vita da campione, da protagonista dello sport italiano, usando i toni giusti. E i modi, educati, disponibile con tutti. Ma lei Dino Meneghin si rende conto di essere considerato «un mito» del basket italiano, e non solo? «Massì, me lo dicono, spesso mi salutano facendomi sentire importante, è anche gratificante conoscere il giudizio della gente, il ricordo che ha di me, ma io non ho mai pensato, nemmeno quando giocavo, a tutta questa considerazione. Per un semplice motivo: ho fatto per tanti anni la cosa, giocare a basket, che più mi piaceva al mondo. Senza pensare di essere un esempio per gli altri». Senza questo peso ha vinto tutto, difatti martedì sera prima del match col Maccabi, l’Olimpia Milano griffata Armani ritirerà la sua maglia numero 11, una sensibilità, un riconoscimento, un premio, l’ennesima medaglia per Superdino: quella maglia non potrà essere indossata da nessun altro giocatore. È consegnata alla storia: verranno in tanti, i suoi compagni, compresi quelli di Varese, l’altra sua grande squadra insieme alla Nazionale e Trieste, i suoi allenatori, i suoi dirigenti, i suoi amici, a celebrarlo e a commuoversi con e per Dino.

Che sensazione le dà?
«È come mettere un punto alla mia carriera. Sì, lo considero il massimo riconoscimento, da parte di Milano, per la mia vita di giocatore. Poi ci scherzo su e potrei buttare lì... sì, ma adesso caro Dino togliti dalle scatole. No, no è un onore, il regalo, il gesto dell’Olimpia Milano lo metto alla pari del mio ingresso nell’Hall of fame americana».

Il suo bilancio?
«Estremamente positivo, non può essere diverso».

Cosa non rifarebbe?
«Ho un cruccio: quello di non essere stato più vicino a mio figlio Andrea. Il rapporto con lui poteva e doveva essere diverso. Ho pensato troppo a quello che facevo, all’allenamento, alla squadra, alla mia carriera. Con maggiore sacrificio avrei dovuto comportarmi in modo diverso».

Vogliamo parlare di un altro traguardo, dei suoi 70 anni?
«Anche no...», e giù una risata condita da una parolaccia.

Li compirà il 18 gennaio 2020.
«Vabbe’, se insistete...».

Le pesano?
«Non ho mai pensato al passare degli anni. Importante è stare bene e finora la salute fa giudizio. Sto attento, mi regolo nel mangiare, mia moglie Caterina, un medico, mi dosa i cioccolatini. Le cose vanno per il verso giusto, anche se il mio amico Marino Zanatta mi prende in giro, mi dice “attento Dino hai una certa età, se prendi la bici, metti su le rotelle”».

Con sua moglie, una vita insieme, dal 1984: Caterina chirurgo plastico, estetico, ospedale, studio; lei prima campione poi team manager all’Olimpia e in Nazionale, commissario e presidente federale, ora dirigente alla Federazione internazionale. Trentacinque anni di coppia, i problemi li lasciavate fuori casa?
«Tendenzialmente sì. Ho al mio fianco una donna intelligente, capace di sdrammatizzare e anch’io cerco di non farmi dominare dalle tensioni. Quando giocavo, lei sempre presente, costantemente vicina, ma mai invadente, mai una parola fuori posto, una critica all’allenatore, al compagno. Lei ed io rispettosi dei reciproci spazi».

Che vita fate?
«Si lavora, quanto al resto niente mondanità. Andiamo a teatro, prendiamo un palchetto, così non tolgo la visuale a nessuno... Ci godiamo le vacanze nella nostra casa nel Monferrato. Amici. Una vita piena, ma normale».

Anni fa lei ha rifiutato di correre per la presidenza della Federazione internazionale, preferendo un ruolo più defilato: ma perché?
«È una vita d’inferno, sempre in giro per il mondo. Io ho giocato tanto, dopo ho fatto il dirigente, sono stato ovunque, so cosa significa volare, prendere un aereo ogni tre giorni. È un ritmo che puoi tenere quando hai 40 anni, non a 60, appunto quando c’era quella possibilità».

Dino Meneghin, il campione, ha giocato ad altissimo livello fino a 44 anni. Un record: come ha fatto?
«Sono stato un precursore, ai miei tempi a 30 anni eri considerato già vecchio. Ecco Milano, grazie a Dan Peterson, mi ha allungato la carriera, regalandomi una seconda vita dopo quella di Varese».

Lei resta ancora adesso popolarissimo: non è grave per i suoi attuali colleghi?
«Credo di essere stato agevolato proprio dalla mia lunga carriera. Ho fatto parte di squadre, Varese, Milano e Nazionale che hanno vinto tantissimo, con compagni fortissimi. Era un po’ il boom del basket. Senza dimenticare che quando ho lasciato ho lavorato per Milano e la Nazionale».

Gallinari, Belinelli, Melli, Datome, Hackett, un gruppo di campioni che rischia di non vincere nulla con la Nazionale?
«Mi spiace, moltissimo, so quanto lavorino, quanto si impegnino e quindi come soffrano».

Lo segue il basket di adesso?
«Sì, ma non mi diverto più tanto. Non voglio esprimere un giudizio tecnico, ma la Nba, giocata sempre a un livello altissimo, dopo un po’ mi annoia. Pick and roll e tiro da 3, pick and roll e tiro da 3... io sono più per un gioco corale».

Pensa mai a quanto guadagnano i suoi colleghi di adesso? Hanno contratti milionari.
«Lo dicevo spesso a mio padre: “pa’ se tu mi avessi fatto una quindicina d’anni dopo, ci saremmo sistemati per sempre. Allargava le braccia pover’uomo».

Anche suo figlio Andrea Meneghin ha giocato da campione. Ma è vero che ci saranno altri Meneghin sotto canestro?
«Chissà, le due figlie di Andrea hanno cominciato a giocare... Poi, c’è mio pronipote, Mattia, il bambino di Bruno, figlio di mio fratello Renzo: è nel minibasket a Malnate. Facciamoli divertire...».
Proprio come il nonno e lo zio che a quasi 70 anni prende la vita sempre col sorriso.

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