15 novembre 2019 - 19:33

Hong Kong, la città è divisa in due Nell’Università solo 200 irriducibili

Nell’ateneo sono rimasti soltanto 200 contestatori, forse a guardia dell’armeria. Dal Brasile il monito di Xi: fermare la violenza è urgente

di Guido Santevecchi, inviato ad Hong Kong

Hong Kong, la città è divisa in due Nell'Università solo 200 irriducibili
shadow

HONG KONG Qual è la vera Hong Kong in un venerdì sera di metà novembre ancora tiepido e con una luna piena quasi rossa? Quella dei bar e dei ristoranti affollati di gente elegante nel quartiere di Sheung Wan, vicino al distretto finanziario? O quella dall’altra parte della baia, sulla terra ferma di Kowloon dove nella notte gli scontri, le barricate e i roghi hanno spazzato via l’illusione di una tregua? Quella delle file ordinate in attesa degli autobus o quella della Chinese University trasformata in un fortino dagli studenti armati di archi e frecce, di giavellotti presi dal campo sportivo per bersagliare la polizia? La città è tutto questo ed è sempre più divisa e inconsapevole del futuro.

Si sono divisi, forse solo per il fine settimana, anche i ragazzi arroccati nella Chinese University, perché la maggior parte di quel nucleo di mille che ha dato battaglia per gli ultimi quattro giorni, asserragliandosi nel campus e bloccando con una pioggia di mattoni e bottiglie incendiarie la superstrada che scorre sotto, ieri pomeriggio si è ritirata. Si sono tolti maglie e calzamaglie nere, le maschere e i guanti, si sono rimessi i vestiti leggeri dei loro vent’anni e sono scesi dal fortino, raccolti da un corteo di auto guidate da amici, sostenitori della protesta, genitori ansiosi di riaverli a casa. Dentro sono rimasti in duecento, pare, a guardia dell’armeria: le scorte di molotov, gli archi e le frecce razziati dal campo sportivo, i mattoni accumulati per continuare la guerriglia. Qualcuno di questi più duri tra i duri ha confidato la propria frustrazione: «Dormivo quando c’è stata un’assemblea, lì hanno deciso di ritirarsi e ora che siamo rimasti in pochi la polizia potrebbe attaccarci».

Pare ci sia stato un tentativo di negoziato: esponenti governativi hanno promesso che nonostante il clima di lotta continua non saranno annullate le elezioni per i consigli di quartiere previste tra una settimana, i ragazzi hanno lasciato la Chinese University e liberato la superstrada. Ma se mezza intesa c’è stata, è durata poco: gli irriducibili nella notte hanno bloccato di nuovo la grande strada. Non si può prevedere che cosa succederà nelle prossime ore. La polizia ha ammonito che «la società è sul punto di rottura», l’economia ieri è stata dichiarata ufficialmente in recessione dopo essersi contratta del 3,2%, solo Alibaba ha cercato di fare il cavaliere bianco lanciando una Ipo da 13 miliardi di dollari alla Borsa di Hong Kong e vedendo «un futuro luminoso per la città».

Dal Brasile dov’è in missione Xi Jinping ha lanciato un altro avvertimento: fermare la violenza è urgente, punire i colpevoli è un obbligo. Dev’essere anche un’umiliazione, per il presidente cinese, dover parlare dall’estero della crisi interna: significa che la sua pazienza è davvero alla fine. La stampa di Pechino ha scritto che «I tumulti di Hong Kong sono entrati nella follia finale».

Merita di essere letta e analizzata la cronaca del Global Times, quotidiano comunista che spesso anticipa le decisioni del Partito. Il giornale sostiene che i manifestanti sono impazziti, affascinati dalla loro violenza. E che però la rivolta è alla fase finale, perché «i numeri dei dimostranti sono scesi, caleranno ancora, ma i ribelli rimasti in strada diventeranno ancora più violenti». Il «consiglio», che potrebbe rispecchiare la linea di Pechino è di «non cedere, usare tutte le misure previste per spegnere la rivolta».

Però, folle è stata per prima la governatrice di Hong Kong (con i suoi padrini di Pechino) che ha sottovalutato e disprezzato la protesta pacifica di giugno di un milione, poi di due milioni di persone. La governatrice Carrie Lam non li ha voluti ascoltare, pensando di spaventarli con i lacrimogeni della polizia e dai cortei si sono staccati i più giovani, che hanno usato la guerriglia per farsi ascoltare. Ora non si vedono vie di sbocco, non ci sono proposte politiche. La polizia ha cominciato anche a sparare a bruciapelo su ragazzi disarmati; un uomo «filo-cinese» è stato incendiato mentre litigava con «hongkonghesi», un anziano netturbino è morto giovedì, colpito alla testa da un mattone. Incita alla repressione la stampa di Pechino. Sempre il Global Times in un editoriale ha descritto così la scena del ferimento di un manifestante lunedì: «Un poliziotto, che fronteggiava diversi ribelli, ne ha afferrato uno con la mano sinistra, ha impugnato la pistola con la destra e ha sparato per difendersi da un altro aggressore». È una narrativa da Far West in salsa mandarina.

Però, in questa città che in alcuni quartieri nei Nuovi Territori è divisa come Beirut tra cinesi e hongkonghesi, prevalgono ancora scene di civiltà disarmante. I colletti bianchi sfruttano la pausa pranzo per scendere in strada a Central e protestare pacificamente e poi alle sei di sera si incolonnano alle fermate degli autobus a migliaia, rispettando una fila ordinatissima.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT