Interventi

Senza maggioranze stabili sui conti non c’è alcuna strategia

Le difficoltà di un governo appena insediato tra una commissione e l’altra

di Nicola Lupo

(Agf)

4' di lettura

Nei giorni scorsi si è aperta, in Senato, la sessione di bilancio. È incentrata, come accade dal 2016, sull’esame e sull’approvazione del solo disegno di legge di bilancio, nel quale è confluito - in applicazione della legge costituzionale 1/2012 - il contenuto del disegno di legge chiamato prima «Finanziaria» e poi «di stabilità». Al disegno di legge di bilancio si accompagna, in genere, un decreto legge fiscale: il decreto legge 124 del 26 ottobre 2019, attualmente all’esame in prima lettura invece presso la Camera, il quale dovrà essere convertito entro Natale.

Nelle audizioni svoltesi presso le commissioni Bilancio delle due Camere si è spesso lamentata la mancanza di un disegno strategico. Si tratta di un difetto proprio dell’attuale manovra, peraltro comune anche a molte delle precedenti, che ha senz’altro cause politiche, legate alla difficoltà di tenere assieme maggioranze eterogenee, ma altresì cause istituzionali, derivanti dalle procedure finanziarie in essere, e dalle loro tempistiche, fissate nel calendario europeo di bilancio, che mal si sono integrate, negli ultimi due anni, con i ritmi della politica italiana.

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Tradizionalmente, dal 1978, la sessione di bilancio è stato il momento in cui le principali opzioni di politica economica per l’esercizio finanziario successivo erano compiute da Governo e Parlamento e tradotte in norme giuridiche e nelle relative poste finanziarie. Al fine di assicurare il pieno controllo della leva finanziaria, si è imposta la regola per cui, mentre è in corso d’esame il disegno di legge di bilancio, è vietato - con poche eccezioni - esaminare altri progetti di legge con effetti finanziari. A partire dal 1988, si è inoltre avvertita la necessità di anticipare una fase programmatica, nella quale Governo e Parlamento sono stati chiamati a definire già in primavera i loro obiettivi, anche e anzitutto in termini di saldi della finanza pubblica, da attuare nella successiva sessione di bilancio. Tale fase programmatica si è incentrata intorno a un documento governativo, che ha assunto prima il nome di Dpef, poi di Dfp, e oggi di Def, Documento di economia e finanza, che Camera e Senato sono chiamate ad approvare, in parallelo, mediante apposite risoluzioni.

Dopo la crisi economica, l’Unione europea, con le normative contenute nel Six-pack (2011) e nel Two-pack (2013), ha rafforzato l’opera di coordinamento delle politiche fiscali dei suoi Stati membri istituendo un calendario comune di bilancio, dentro il quale la sessione di bilancio è ora inserita. Non a caso, la tempistica fissata dalla legislazione nazionale si è prontamente adeguata a quella europea. Il Def ingloba ora i programmi nazionali di stabilità e di riforma che devono essere trasmessi a Bruxelles entro aprile e su cui poi le istituzioni europee formulano le raccomandazioni specifiche per ciascun Paese. La manovra vera e propria deve essere poi preceduta da un altro documento, il Documento programmatico di bilancio, da trasmettere entro il 15 ottobre. Sono questi, ormai, i tempi “veri” della sessione di bilancio.

Il problema si crea quando queste tempistiche sono dissociate rispetto a quelle del ciclo politico-elettorale che si sviluppa in Italia. È, purtroppo, ciò che è accaduto - seppure in forme diverse - sia nel 2018, sia quest’anno.

Nel 2018 un Def tendenziale è stato presentato il 26 aprile dal governo Gentiloni, espresso da una maggioranza già uscita sconfitta alle elezioni del 4 marzo. Nel 2019 il Def è stato presentato il 9 aprile dal governo Conte 1. Non può stupire, perciò, che in entrambi i casi abbia acquistato particolare rilievo, contenendo i “veri” indirizzi alla base delle ultime due sessioni di bilancio, quello che dovrebbe essere un mero documento di aggiornamento: la Nadef, ossia la Nota di aggiornamento del Def, da presentare entro il 27 settembre, la quale pure va approvata con risoluzioni parlamentari, il cui voto in entrambi i casi è stato preceduto da quello (da effettuarsi non a maggioranza semplice, ma a maggioranza assoluta) di una relazione con cui è stato aggiornato il piano di rientro rispetto all’obiettivo del pareggio di bilancio.

Com’è ovvio, il mismatch temporale si acuisce ancor di più quando gli indirizzi di finanza pubblica individuati in Italia non appaiono coerenti con quelli definiti e concordati in sede europea. È ciò che è accaduto, appunto, l’anno scorso, quando il negoziato con Bruxelles si è protratto a lungo e i saldi-obiettivo hanno dovuto essere rideterminati a metà dicembre. Questo ha comportato effetti deleteri sull’andamento della sessione di bilancio: si è arrivati, secondo la perversa logica dell’«inseguimento del peggior precedente», alla presentazione direttamente all’Assemblea del Senato di un maxiemendamento, sul quale il Governo ha posto la questione di fiducia, con cui si è riscritta una buona parte della legge di bilancio. Una «lunga interlocuzione con le istituzioni europee», richiamata anche dalla Corte costituzionale, nell’ordinanza 17/2019 con cui ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzioni presentato dai senatori del Pd, invitando, nel contempo, a evitare il ripetersi di analoghe «forzature procedurali».

Quest’anno, com’è noto, la manovra appare maggiormente in linea con i vincoli europei ed è riuscita a evitare che scattasse l’aumento dell’Iva previsto dall’apposita clausola di salvaguardia. Tuttavia, come si diceva, è emersa con chiarezza l’assenza di un disegno strategico unitario, non dico pluriennale - secondo quanto sarebbe richiesto - ma anche soltanto annuale. Era, del resto, difficile che un governo formatosi, tra la sorpresa generale, ai primi di settembre e costretto in tali vincoli contenutistici e temporali, fosse in grado di elaborarlo e di attuarlo, per giunta in una fase di passaggio di consegne tra una Commissione europea e l’altra e con il quadro finanziario pluriennale ancora in via di definizione.

L’auspicio è che questa sessione di bilancio si possa svolgere nel rispetto di tali vincoli contenutistici e temporali, in modo più ordinato e chiaro, se non altro al fine di spiegare le responsabilità politiche e le diverse alternative possibili e praticabili, senza finire nel gioco dei poteri di veto. Per opzioni più strategiche non resta che attendere il prossimo Def: e chissà se il Governo che lo predispone sarà il medesimo poi chiamato ad attuarlo.

nlupo@luiss.i
Direttore del Centro di studi sul Parlamento - Università Luiss

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