"Il sole in testa": Geovani Martins racconta la Rio de Janeiro di oggi

Il giovane scrittore brasiliano traccia in 13 racconti un ritratto del Brasile contemporaneo, nell'eterna frattura tra favelas e città, tra chi vive ai margini e chi detiene soldi e potere. Un esordio potente per un libro che dà voce anche alla speranza
Geovani Martins
Geovani MartinsSimone Padovani/Awakening

Geovani Martins ha 28 anni e conosce molto bene la favela. Ci è nato e cresciuto: è un ragazzo di Vidigal e di Rocinha, le famose colline con vista di Rio de Janeiro. Ospitano le comunità popolari e guardano dall’alto la ricchissima “zona Sul”, ovvero Copacabana, Ipanema, Leblon, con le loro spiagge e le vie alberate dove il valore delle case per metro quadrato è il più alto di tutto il Brasile.

Da lassù il panorama è unico, spettacolare, ma non ripaga delle condizioni di povertà estrema a cui sono ridotti gli abitanti, senza servizi basilari, senza assistenza, senza scuole, senza fognature. Da una parte dunque ci sono i quartieri ricchi, dall’altra le baraccopoli abbarbicate sulle colline. E qui sta “la differenza”, il noi e il voi che ogni brasiliano conosce e si porta dentro: “morro” e “asfalto”, favela e città, fango e strada. Una frattura che catalizza e plasma la vita economica, sociale, culturale di un intero Paese.

Il sole in testa di Geovani Martins (Mondadori)

Geovani, scrittore emergente, in questa crepa ha trovato la sua voce: unica e forte, capace di oscillare con la stessa credibilità tra i due opposti poli, di raccontare un mondo e il suo rovescio. La ascoltiamo nel suo primo libro - Il sole in testa - che in Brasile ha avuto molto successo e arriva adesso anche in Italia per Mondadori. Racconta di bambini, ragazzi e adulti che cercano un posto all’ombra, tentando di sfuggire a quel sole senza scampo che caratterizza le loro esistenze di poveri. Rende più che mai vicine a noi le vite ai margini che nelle favelas sono la norma, compresse tra narcotraffico e polizia violenta, tra amicizie e relazioni famigliari complicate, e sempre sul crinale del rischio e della dipendenza dalla droga.

Abbiamo parlato con l'autore del suo lavoro e del particolare momento che la città di Rio de Janeiro si trova oggi ad attraversare.

Una favela di Rio

Come ti spieghi il tuo successo?
Da qualche tempo in Brasile c’è una nuova ondata di autori nati, come me, in favela. Il terreno è fertile. Penso però che il mio libro abbia avuto molta eco perché riesce a toccare tutti. Con lo stesso testo, raggiunge gruppi opposti di persone: c’è chi si identifica con i personaggi perché vive la stessa realtà e chi ci si avvicina per estraniamento. Ho pensato a mia madre, che è nata e vissuta in favela, ma anche a una signora benestante di Rio de Janeiro. Volevo che entrambe potessero capirlo e trovarlo interessante. I miei personaggi sono inventati, ma a partire da uomini e donne reali: sono loro che parlano, che osservano e che vivono la realtà che li circonda.

La lingua che usi è un miscuglio di slang e portoghese accademico, un incessante rimpallo tra linguaggio colloquiale e parola letteraria. Come sei riuscito a dominarla così bene?
Ho cominciato a scrivere questo libro pensando che la lingua è un corpo vivo, sempre in movimento, trasformazione, evoluzione. Non appartiene completamente né a un polo né all’altro. L’ho capito abitando a Rocinha per molti anni: qui vivono persone che arrivano da ogni parte del Brasile, ognuna delle quali porta espressioni locali che finiscono per mescolarsi a un linguaggio sempre diverso. Io stesso mi sono reso conto quando ero adolescente di potere parlare quattro forme diverse della stessa lingua. Il libro oscilla tra lingua formale e dialetto urbano: mi piace mescolare parole degli opposti campi semantici, si tratta in fondo di un modo molto naturale di parlare e di scrivere.

La scelta di un linguaggio così stratificato è politica?
Politica, ma anche estetica, perché guidata da una ricerca cosciente il cui obiettivo è scrivere in una lingua contaminata, in cui slang e canone coesistano in modo naturale. Volevo evitare che la mia lingua suonasse posticcia, che il mio libro scimmiottasse il dialetto. Molti libri utilizzano lo slang, ma devono fermarsi a spiegarlo: chiaro segnale che la storia è stata scritta per certi lettori, quelli che non capiscono il linguaggio popolare.

Il centro di Rio

Rio de Janeiro

Come si vive oggi nelle favelas di Rio?
Viviamo uno di momenti più violenti della vita di Rio de Janeiro, lo stato è in bancarotta, c’è moltissima disoccupazione: la routine quotidiana è pesante. Finora più di 1300 persone sono state uccise nel confronto quotidiano con la violenza della polizia. Ovviamente una situazione simile non può che incidere pesantemente sulla vita di ognuno: dalle madri, che non sanno se i figli torneranno a casa la sera, ai bambini, che spesso saltano la scuola, chiusa per via della guerra tra trafficanti e poliziotti.

C’è una piccola speranza che le cose possano cambiare?
Di sicuro non a breve. Il narcotraffico continua a dominare al città con la stessa forza: il modo con cui il governo cerca di contrastarlo non funziona, come dimostra il numero crescente di morti.

Davvero non è servito a nulla il sacrificio di Marielle Franco, la consigliera comunale assassinata nel 2018?
Marielle Franco (sociologa e politica nata in favela, ndr) ha ispirato molte donne, anche nere, a scendere in politica. Molte di loro sono state elette e portano in sé la forza e l’eredità di lotta di Marielle. In generale, la tendenza indica una maggiore emancipazione: molte persone riescono ad accedere oggi agli studi universitari e, nonostante la repressione da parte della parte più conservatrice della società, alcuni hanno raggiunto posizioni importanti. Oggi ci sono più scrittori, artisti, musicisti cresciuti nelle favelas, frutto delle politiche di cambiamento dello scorso decennio che hanno previsto un sistema di quote per garantire l'accesso all'istruzione superiore anche a chi vive ai margini. Ci troviamo in mezzo a un processo lento, ma non perdo la speranza.

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