Per chi tifava il San Paolo
la notte magica di Italia-Argentina?

risponde Aldo Cazzullo

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Caro Aldo,
sto leggendo Naploitation, il saggio di Marco Demarco. Mi ha molto incuriosito il capitolo su Sorrentino e la semifinale di Italia ’90 al San Paolo, Italia-Argentina. Ma è così impossibile stabilire per chi hanno tifato i napoletani quella sera?
Fabio Russo, Roma

Caro Fabio,
Riassumo per i lettori la questione. I n un’intervista al Corriere, Paolo Sorrentino raccontò di aver tifato Napoli, «come tutto lo stadio», per amore di Maradona. Demarco cita però un nostro bravo giornalista, Gianluca Abate, che invece testimonia il contrario: il San Paolo tifava Italia; e a suo sostegno porta i video su Youtube in cui si vedono striscioni proazzurri e si sentono fischi quando Maradona sta per calciare il suo rigore (l’Argentina ci eliminò appunto ai rigori). Un altro che in quella notte magica c’era, il mio amico Mimmo Noè, figlio del maresciallo dei carabinieri di Soccavo dove si allenava il Napoli di Maradona, sostiene che le tribune tifassero Italia, e le curve Argentina.
Ovviamente la questione non è solo calcistica. Demarco la evoca per sostenere la sua tesi: ai napoletani piace recitare la parte dei napoletani; per cui tendono a raccontare che il San Paolo tifava Maradona pure contro gli azzurri, anche se non è vero. Ma se invece fosse vero, anche solo in parte? Sarei curioso di sapere quel che ne pensa il Napolista, uno dei migliori siti sportivi italiani. La mia idea, gentile Fabio, è che il cuore dei napoletani fosse diviso.
Come quello di capitan Bruscolotti, che un giorno negli spogliatoi con le lacrime agli occhi si tolse la fascia e disse a Maradona: «La vedi questa fascia? È la cosa a cui più tengo al mondo. Sono napoletano, e fare il capitano del Napoli è stato l’orgoglio della mia vita. Ma io questa fascia la voglio dare a te, Diego. In cambio però ci devi fare vincere lo scudetto». Il finale è noto. In ogni caso, Napoli è oggi — nel bene e nel male — la vera capitale d’Italia, il luogo dove le virtù e i vizi nazionali sono elevati a potenza, la Washington DC della nostra cultura materiale. Non solo pizza, spaghetti, Gomorra e ‘O sole mio; Totò, Eduardo, Elena Ferrante, Pino Daniele. All’estero pensano l’Italia come un’immensa Napoli. Quelli che accolgono i tifosi napoletani con striscioni tipo «Benvenuti in Italia» non hanno capito niente. Proprio come i neoborbonici quando parlano di «conquista piemontese».

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«Imparammo il pugliese dal teatro del vicolo»

Nel 1940, per le vacanze, andavamo dai nonni a Mola di Bari. La casa aveva una finestra che si affacciava su un vicolo cieco. Nel vicolo le difficoltà della vita nella povertà, l’essere troppo vicini gli uni agli altri, facevano scoppiare tra le donne furibondi litigi. Allora si apriva per me e mia sorella il sipario del «Teatro Dialettale Pugliese». Parole grosse venivano scagliate dall’una all’altra donna come frecce velenose a difesa delle proprie ragioni. Frasi pittoresche dipingevano l’una e l’altra delle contendenti in un linguaggio che metteva al vivo le questioni come mai la lingua italiana sarebbe riuscita! Noi bambine correvamo alla finestra, scostavamo la tenda e, non viste, guardavamo lo spettacolo. Non bastava ascoltare, bisognava osservare, perché il linguaggio era anche gestuale. Lo spettacolo del litigio era per noi ancora più bello perché proibito. La mamma non voleva che parlassimo in dialetto. In sua assenza, scelto con mia sorella il tema di un litigio, imitavamo le «maestre» del vicolo e ci scatenavamo gridando in dialetto. «Coliiii! Coooliii!!». Era il grido delle madri per chiamare i figli, i monelli, che si erano allontanati dal vicolo. Molti si chiamavano Nicola come il Santo Patrono di Bari. Il diminutivo Nicolino, veniva semplificato in «Colì».
Lucia Marcella Lizzini, Monza

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