1 novembre 2019 - 00:36

La scrittrice nigeriana Chimamanda Adichie: «Il femminismo? Senza gli uomini è una rivoluzione a metà»

L’autrice che ama la moda e ha ispirato Beyoncé, riceverà a BookCity il premio «Afriche». Con 7 mette a nudo le emozioni più personali, le lacrime di rabbia e quelle di gioia, il ruolo di terapeuta per le amiche

di Luca Mastrantonio

La scrittrice nigeriana Chimamanda Adichie: «Il femminismo? Senza gli uomini è una rivoluzione a metà»
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La scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie. Vive tra la Nigeria e gli Stati Uniti. Tra i suoi libri più noti, «Americanah» (foto Stephen Voss/Redux/Contrasto)

Uno dei punti di forza degli stereotipi è che sono meno falsi di quanto sostengono i loro critici. Il vero problema è che sono incompleti, e ci offrono una visione parziale, falsata, della realtà. Sono un pericolo. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie lo chiama «il pericolo di un’unica storia», cioè del pensiero quando diventa unico. Un esempio? «A Guadalajara, in Messico, osservavo la gente andare a lavoro, fumare, ridere, e mi sono sorpresa, poi vergognata, di vederli solo come immigrati», ha raccontato la scrittrice che vive tra gli Usa e la Nigeria. Lo stereotipo funziona così: trasforma un pezzo di verità, «gran parte degli immigrati sono messicani», nell’unica verità, «tutti i messicani sono immigrati».

IN ITALIA USCIRÀ NEL 2020 IL LIBRO IN CUI CI SPRONA
A COMBATTERE GLI STEREOTIPI: SULLE FEMMINE
ARRABBIATE E SUI MASCHI CHE NON PIANGONO

Come il potere usa gli stereotipi è il tema di una sua TED Conference vista online da 20 milioni di persone. Racconta gli errori, gli sforzi e la bellezza di scoprire altre voci, tra cui la propria. Il pericolo di un’unica storia a inizio 2020 uscirà in volume, per Einaudi, che ha già pubblicato i romanzi, bestseller pluripremiati, tra cui Americanah, e i saggi, tra cui Dovremmo essere tutti femministi, le cui parole sono finite sulle magliette Dior e in una canzone di Beyoncé, Flawless. A Milano per BookCity Chimamanda riceverà il premio «Afriche». Ha parlato con 7 al telefono, da Lagos, in Nigeria.

Qual è oggi l’orizzonte prioritario del femminismo?
«Intendi per gli uomini? O per le donne? Il punto centrale del femminismo è che uomini e donne sono diversi e queste differenze sono state la base per l’oppressione. Uno dei maggiori problemi riguarda la comunicazione tra uomini e donne: in generale le donne hanno molta più familiarità con gli uomini rispetto agli uomini con le donne. Vale anche in letteratura: le donne hanno bisogno degli uomini, ma in generale gli uomini non hanno bisogno delle donne. Così gli uomini ascoltano gli uomini, meno le donne».

Ragioniamo per stereotipi. Che sono veri, ma incompleti. Come completiamo questa storia?
«Bisogna dare a voi uomini gli strumenti per esprimere le emozioni. Molto lavoro deve essere fatto dagli uomini, tra gli uomini, con gli uomini. Molte cose di cui le donne si lamentano, gli uomini le fanno perché hanno paura di provare vergogna davanti ad altri uomini. Molta mascolinità è performance per altri uomini, non per le donne. Il femminismo deve occuparsi di ragazze e donne, perché soffrono di più per l’oppressione. Ma dobbiamo parlare anche di ragazzi e uomini, perché possiamo cambiare le donne quanto vogliamo, ma se gli uomini non cambiano, nulla cambia. Per questo dobbiamo essere tutti femministi. Un mondo senza questa oppressione, è una vittoria per tutti, a prescindere che tu sia uomo o donna».

Strumento prelinguistico per esprimere emozioni è il pianto. Lei dice che bisogna educare noi uomini al pianto. Penso a Julio Cortázar che in «Storie di cronopios e di famas» ha scritto «Istruzioni per piangere»
«Funziona? Ti è servito?».

Ho pianto meglio, suggerisce pure come soffiare il naso
«Quando hai pianto?»

Guardando «Love story ». Il film è strappalacrime e l’attore è Ryan O’Neal: cioè, per me, è il Barry Lyndon del film di Kubrick. Ricorda l’ultima volta che ha pianto?
«Per una buona ragione o cattiva? Sono nota per piangere quando sono arrabbiata. Giorni fa mi sono infuriata, e poi ritrovata in lacrime».

Spesso la rabbia rischia di diventare odio. Il femminismo a volte sembra odio verso i maschi.
«Il problema è che quando le donne mostrano rabbia, gli uomini la leggono come odio verso di loro. C’è un livello di rabbia giustificata, che le donne sentono che dovrebbe essere permesso loro di provare. Guardiamo le statistiche della violenza sessuale: ho incontrato donne che lavorano nei rifugi per stupro, e le ho viste piene di rabbia, e lo capisco. Alcune femministe ritengono non sia loro responsabilità far sentire meglio gli uomini in un sistema oppressivo verso le donne. Parlare della rabbia delle donne non dovrebbe essere letto come odiare gli uomini, perché ovviamente non tutti gli uomini sono violenti ma certo sono gli uomini a fare violenza. E perché se parli agli uomini di femminismo, subito diventano molto difensivi? Gli uomini non possono essere ridotti a quelli che fanno violenza sulle donne né il femminismo alle estremiste che odiano gli uomini».

Ho visto su Instagram che è stata alla Whitechapel di Londra per la mostra di Anna Maria Maiolino, «Making Love Revolutionary». L’amore tornerà rivoluzionario?
«Cos’è l’amore rivoluzionario?»

Forse un sentimento che cambia le cose, lo status quo? L’odio è violento ma non sempre rivoluzionario, spesso è reazionario. L’amore invece è rivoluzione.
«Il discorso politico è focalizzato sul risentimento, l’antipatia, perché è più facile pensare ciò che non siamo rispetto a ciò che siamo. Mi spezza il cuore vedere come il mondo sta andando a destra, puntando a escludere altre persone».

La parola “amore” cosa le suscita, cosa le fa venire in mente?
«Famiglia, amici, tolleranza, pazienza. Spesso dico che le persone hanno bisogno dell’amore tanto quanto del cibo. L’amore è come il cibo. Secondo me non è un’opzione con cui convivere, è necessario».

Tornando ai pianti, felici questa volta: un suo pianto di gioia?
«Per una foto dei miei genitori; mio fratello era andato a trovarli nella nostra città, e ci ha inviato una foto dove mio padre ride. Era in piedi, nel salotto di casa nostra, e mia madre sedeva ridendo con lui. Come ho guardato quella foto ho iniziato a piangere. Mi ha fatto pensare che sono fortunata, i miei genitori ci sono ancora, sono insieme, li adoro, adoro vederli ridere, la loro risata era incredibile e la fotocamera l’ha catturata bene. Mi ha riempito di gratitudine! Ma mi ha anche reso consapevole della mortalità. Le emozioni contrastanti fanno piangere».

Lei ha vinto premi letterari, fatto breccia nel mondo della moda, è citata nei Simpson ... Di cosa va più orgogliosa?

La copertina del romanzo «Metà di un sole giallo»
La copertina del romanzo «Metà di un sole giallo»

«Professionalmente? Scrivere e finire Metà di un sole giallo è stato un processo profondamente emotivo, fatico ancora a crederci. Personalmente, sono orgogliosa dei legami con la mia famiglia e gli amici. Per scherzo, diciamo che sono la terapeuta di famiglia. Ho una amica che vive a Lagos e quando sta vivendo un momento difficile sono la prima persona che chiama. Una volta ero al telefono con lei da ore, per aiutarla a gestire una situazione, che a volte significa solo pazienza e ascolto, poi le ho fatto una domanda, molto semplice: “Pensi di poter definire ciò che senti?” “È rabbia, è dolore, è tristezza, ne sai il motivo?” Mi disse — e mi ha ricordato lei che le ho fatto quella domanda — che così l’avevo aiutata davvero a chiarire i suoi sentimenti. Mi sono sentita felice».

« PERDONARE È FEMMINISTA, MA...
SOLO SE A PARTI INVERTITE
SAREBBE SUCCESSO LO STESSO»

In «Cara Ijeawele», lettera ispirata da una sua amica su come crescere una bambina femminista, lei sostiene che se una donna viene tradita deve sentirsi libera di perdonare il marito, anche se per molte femministe l’unica opzione è lasciarlo. Anche perdonare, è femminista, a una condizione però: la donna deve chiedersi se a parti invertite sarebbe successo lo stesso: lui, tradito, perdonerebbe? Il ragionamento fila. Ma non è troppo speculativo?
«Certo, non si può mai essere sicuri. Le persone sono diverse e penso che tu non possa mai veramente conoscere qualcuno perfettamente. Ma se hai un certo tipo di relazione e sei con qualcuno che conosci bene, sai in cosa credere e in cosa no. Non puoi assicurarti, ma se la relazione è paritaria, lo percepisci. Se una ha una relazione e non prova risentimento, è alla pari. Non significa essere perfettamente felice, che tutto va bene, ma che non si prova risentimento, che non c’è l’impressione di dare di più emotivamente, o che l’altra persona stia compromettendo la relazione, o che si aspetta che tu perdoni lei ma tu non ti perdoni...».

Quindi il femminismo, anche per i maschi, è uno stato mentale?
«Assolutamente sì, è un modo in cui guardare il mondo. Quando il mondo sarà realmente femminista non ci sarà bisogno del femminismo. Ma non ci siamo ancora, no?».

Il problema di noi maschi, in caso di tradimento, è che ci sentiamo feriti nell’orgoglio.
«Sì. Credo sia connesso alla mascolinità. Già da ragazzi, è difficile per gli uomini essere fedeli a se stessi emotivamente. Riguarda l’ego. Questo è l’orgoglio, per i maschi è proteggere l’ego, e purtroppo proteggere l’ego diventa più importante dell’essere veri nelle emozioni, veri esseri emotivi. Così trovi uomini che prendono decisioni in base al loro ego. Devono liberarsi dall’ego».

Un buon modello di mascolinità?
«Barack Obama».

Non ne ha uno più recente?
«Ce ne sono pochi, non è colpa mia. Vediamo. Ecco. Lo scrittore Michael Ondaatje, è straordinario come scrive di donne in un modo molto così credibile, ed è anche divertente, ama bere e pensa alle donne come a un uguale essere umano. Mi piace».

Michelle Obama (a sinistra), nel 2018, con Chimamanda Ngozi Adichie al Royal Festival Hall di London 8  (Yui Mok/Pa images/via Getty) Michelle Obama (a sinistra), nel 2018, con Chimamanda Ngozi Adichie al Royal Festival Hall di London 8 (Yui Mok/Pa images/via Getty)

Esempi negativi non mancano. Come Donald Trump...
«Non c’è bisogno di parlare di Trump. In negativo gli esempi abbondano. Penso ai nuovi leader in Brasile, in Ungheria... In sempre più Paesi c’è chi considera parlare dei problemi delle donne come fosse una moda. E lo trovo molto preoccupante. Come mi preoccupa che ci sia una specie di movimento politico per cui le donne devono essere mogli e madri che devono lasciare il lavoro per occuparsi solo dei figli».

In «Cara Ijeawele» invita le donne a non vedere il matrimonio come un traguardo, e se vogliono sposarsi, dice, non devono aspettare la proposta dell’uomo. Ha chiesto lei a suo marito la mano?
«Mio marito è un uomo adorabile, gentile, meraviglioso. Ma in realtà non voglio parlare di lui».

Altro consiglio che dà per crescere una figlia femminista è non chiamarla “principessa”, altrimenti passerà la vita a cercare il principe azzurro. Lei come chiama sua figlia?
«Non parlo della vita personale».

In «Americanah» un’amica, kenyana, della protagonista Ifemelu, sostiene che «la parola negro esiste. La gente la usa. Fa parte dell’America. Ha provocato moltissimo dolore alla gente e penso che censurarla sia un insulto». Oggi viene censurata in alcuni classici della letteratura.

La copertina di «Americanah»
La copertina di «Americanah»

«Conta il contesto. Da un lato non penso che le persone che non sono nere dovrebbero mai usare quella parola, specialmente in America, perché è da lì che proviene e ha la sua storia, è una parola che ferisce i neri. Ma dall’altro lato, dire di toglierla perché può traumatizzare un lettore è infantilizzare le persone. Non va tolta dai libri storici, non possiamo imbiancare la storia, dobbiamo fare i conti con ciò che è successo».

Passando a temi più leggeri. Tra gli stereotipi che lei combatte c’è lo scetticismo vetero-femminista verso la moda. Cosa le piace del mondo del fashion?
«Per me è un innamorarsi. So che amo qualcosa, non so dire il perché. Mi piacciono le cose innovative e insolite, i colpi di scena. Mi attira l’idea di essere leggermente non convenzionale. Non troppo anticonvenzionale, ma con un twist, una svolta. Amo le scarpe con delle scritte sopra e con i colori molto audaci. Nei vestiti mi piacciono molto le trame, adoro i vestiti che mescolano trame».

C’è qualche connessione particolare tra la scrittura e la moda?
«Come ci si veste dice qualcosa sulla persona che indossa il vestito, ma non vorrei fare troppa psicologia, non voglio essere il mio terapeuta, non voglio analizzare le mie scelte o quelle degli altri. C’è anche della finzione in come ci vestiamo».

L’autrice mentre indossa la maglietta di Dior con una frase tratta dal suo celebre saggio femminista (Chris Floyd/Contrasto) L’autrice mentre indossa la maglietta di Dior con una frase tratta dal suo celebre saggio femminista (Chris Floyd/Contrasto)

Lei pesca a piene mani nel vissuto reale per i suoi romanzi. Cosa deve avere una storia per conquistarla?
«Mi piacciono le storie che attingono alla vita reale, al vissuto e poi si aggiunge qualcosa di immaginario. Amo le storie con una bella trama, ma senza eccessi di azione, l’importante è che succeda qualcosa, soprattutto dentro il personaggio. Amo l’introspezione, la profondità, le storie che entrano nell’anima, nei pensieri e amo le complessità del personaggio quando non vengono troppo risolte, troppo spiegate. Non amo il fantasy, la fantascienza, i libri di giornalismo, la saggistica. Mi piace la letteratura vittoriana».

CARTA D’IDENTITÀ

La vita — Chimamanda Ngozi Adichie (1977) è nata ad Abba, in Nigeria, ed è cresciuta nella città universitaria di Nsukka. Là ha completato il primo ciclo di studi, poi proseguiti negli Stati Uniti. Sposata, ha una figlia.
I suoi libri — È autrice di bestseller pluripremiati. Il primo romanzo è L’ibisco viola . Poi Metà di un sole gialloe Americanah . Suoi racconti sono raccolti in Quella cosa intorno al collo.I saggi sono Dovremmo essere tutti femministie Cara Ijeawele. In Italia è pubblicata da Einaudi.
Il premio — Sabato 16 novembre a Milano, alla Triennale, l’autrice riceverà il Premio Speciale Afriche, a testimonianza della riconoscenza e della stima che BookCity nutre per la sua opera.

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