MILANO. Con una sentenza di secondo grado che conferma una decisione già espressa dal tribunale e ribalta un orientamento sin qui seguito dalla giurisprudenza nazionale, la sezione famiglia della Corte d’Appello di Milano ieri ha confermato una delibera della giunta regionale lombarda del 2015 (giunta Maroni) che vietava alle donne di religione musulmana di indossare il burqua e il niqab (i veli che coprono interamente il viso) nei luoghi pubblici della Lombardia, ovvero uffici amministrativi, ospedali e Asl. Ufficialmente per questioni di sicurezza, ovviamente, non certo religiose. Canta vittoria il centrodestra che si vede riconosciuta quella che in realtà fin dall’inizio era da considerarsi una battaglia di principio; affilano le armi per l’ultima battaglia in Cassazione le associazioni umanitarie che si erano costituite contro la decisione del Pirellone ritenendola discriminatoria.

In attesa che la Suprema Corte decida cosa fare, è chiaro che la sentenza di ieri fissa un precedente importante e soprattutto ribalta l’orientamento fin qui seguito ed espresso da una decisione del Consiglio di Stato che nel 2008, avverso un’ordinanza simile a quella della Lombardia del sindaco di un paesino, Azzano Decimo, aveva decretato come l’uso del velo, anche integrale, per motivi religiosi non fosse da riconsiderare tra i divieti previsti dall’articolo 5 di una legge “emergenziale” del 1975 (terrorismo/anni di piombo) meglio nota come “legge Reale”, per i travisamenti in pubblico.

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Nella sentenza milanese invece, il principio sembra essere stato invertito. Tutto nasce dalla decisione della Giunta regionale di votare una delibera con la quale, in tutti i luoghi della regione e negli enti pubblici controllati dal Pirellone, venivano esposti cartelli che riportavano “per ragioni di sicurezza” il divieto d’ingresso “con il volto coperto”, seguiti da tre immagini di teste con casco, passamontagna e burqa. Decisione presa all’indomani dei gravi attentati in varie parti d’Europa. Ebbene, secondo i giudici milanesi di primo e secondo grado, in questa delibera non c’è nulla di discriminatorio «anzitutto per la sua genericità e per avere correttamente messo in relazione la impossibilità di identificare una persona, in quanto con il volto coperto, in determinati luoghi pubblici con problemi di ordine pubblico e sicurezza (che i gravissimi attentati avevano reso ancor più evidenti…) senza che vi sia stata violazione di riserva di legge, avendo richiamato la delibera espressamente la legge 152/1975 (c. d. legge Reale, dal nome del suo autore)». Unica concessione ai ricorrenti delle varie associazioni è sulla grafica dei cartelli definita dai giudici «una modalità comunicativa piuttosto grezza» e soprattutto dalle incerte conseguenze dal momento che, a differenza degli uffici regionali, «negli ospedali non vi sono tornelli né personale addetto all’identificazione e non è noto se vi siano o meno provvedimenti amministrativi che disciplinano l’ingresso nelle strutture sanitarie». Così l’identificazione, che dovrebbe essere istantanea per consentire alle donne musulmane di mostrare il volto e poi coprirlo, non potrà essere completa. In questa incertezza, la Corte d’Appello ha così preferito liquidare le spese di causa compensandole tra le parti, senza cioè condannare le associazioni umanitarie per il ricorso.

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