La decadenza (ignorata)
e il vuoto di idee dei partiti

La decadenza (ignorata) e il vuoto di idee dei partiti

La Lega ha mostrato i muscoli con la manifestazione di piazza a San Giovanni. Italia viva si è esibita alla Leopolda. Il M5S fa ricorso periodicamente alla piattaforma Rousseau. Il Pd sta cambiando statuto, alla ricerca di una «alternativa al partito personale». Il fronte dei partiti è in movimento. Ma che cosa sono oggi i partiti?

Sono nati con un piede nella società, l’altro nello Stato. Hanno conservato il secondo e perduto il primo, con una grave crisi di legittimazione. All’inizio della storia repubblicana, in un’Italia con quasi 13 milioni di abitanti in meno, avevano otto volte più iscritti di oggi. Dal crollo della militanza di partito deriva una forte sproporzione tra iscritti ed elettori: per fare solo un esempio, gli iscritti del M5S sono poco più dell’1 per cento dei suoi elettori. Quindi, urne piene, sezioni vuote. Proprio quando tutti i partiti si appellano al mitico popolo, il popolo si allontana dai partiti e il loro rapporto si esaurisce in qualche immagine televisiva di «adunate oceaniche».

Un altro segno della crisi dei partiti come organizzazioni sociali sta nella sostituzione delle vecchie macchine con un «uomo solo al comando». «Il leader è quello che ha i numeri», ha detto icasticamente Salvini (Corriere della sera, 21 ottobre scorso). Italia viva è il secondo partito, dopo Forza Italia, costruito dall’alto, nel quale il movimento (quando ci sarà) è al servizio di una persona. Salvini ha deciso da solo, senza consultare gli organi dei due partiti che guida, la giravolta che l’ha fatto cadere nell’agosto scorso.

Un terzo segno della decadenza della forma partito sta nella sostituzione dei programmi con gli schieramenti. Una volta, i programmi dei partiti erano libri dei sogni, contenevano molte promesse non mantenute, ma indicavano un percorso, spesso aspirazioni, comunque il disegno di una società futura. Ora il vuoto d’idee è riempito da quella che un grande studioso americano da poco scomparso definì «single issue politics», la politica fatta con singoli temi, senza una cornice. L’«offerta politica» si risolve quindi in una o due proposte, per lo più ispirate all’interpretazione che il capo dà degli interessi corporativi dell’elettorato (Francesco De Sanctis nel suo Viaggio elettorale riferisce quel che gli scriveva un suo elettore: «gli entusiasmi passano, gli interessi restano»). Per compiacere gli elettori, ora tutti i partiti propongono riduzioni delle imposte, ritenute «colpi a prodotti e posti di lavoro», «balzelli». I partiti si accusano reciprocamente di essere «il partito delle tasse». Nessuno dice, però, quali servizi vuole ridurre, quali scuole e ospedali vuole chiudere, quali diritti sociali limitare, per ridurre le tasse.

Questa inconsistenza associativa e ideale dei partiti produce molti effetti: volatilità dell’elettorato, destrutturazione organizzativa (sempre meno congressi, riunioni di sezioni, di segreterie e di altri organi collegiali: ad esempio, Anna Maria Parente, senatrice Pd, ha dichiarato al Corriere della sera, il 5 ottobre scorso, che nel suo partito «purtroppo non ci si parla»), abbassamento del livello qualitativo dei parlamentari (e conseguente esaltazione del ruolo dei capi), trasformazione del dibattito politico in un teatrino dei pupi o in una lotta tra galli.

Ma i partiti non si sono ridotti soltanto in meri seguiti elettorali. Rifiutano persino la denominazione di «partito». Solo 5 dei 49 partiti iscritti nella prima parte del «registro nazionale dei partiti politici» hanno la parola «partito» nella loro denominazione ufficiale e solo uno di quelli rappresentati in Parlamento la conserva. Si ha timore, evidentemente, di doversi qualificare con un aggettivo (partito socialista, partito liberale, partito comunista, partito socialdemocratico). Anche al loro interno, si rifugge dalla parola partito: in Italia viva, è sostituita con «casa». Per essa e per il Pd, l’organizzazione (segreteria, presidenza, direzione nazionale, e così via) è una «squadra» (il calcio insegna).

I partiti, che sarebbero lo strumento della democratizzazione dello Stato, sono, quindi, a loro volta non democratici, pur conservando, peraltro, come ho scritto all’inizio, ben saldo il loro piede nello Stato, in cui mantengono (ma solo in virtù dell’investitura quinquennale derivante dalle elezioni) tutti i poteri.

I partiti di cui ho cercato di tratteggiare la decadenza, che hanno perso il loro radicamento sociale, corrispondono ben poco al figurino costituzionale. L’articolo 49 della Costituzione comincia dai cittadini e dall’associazione: «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Le forze politiche attuali hanno conservato ben poco dell’associazione: ci si potrebbe chiedere se non abbiano ragione a rifiutare di ricorrere al lemma «partito».

22 ottobre 2019, 20:51 - modifica il 22 ottobre 2019 | 20:52

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