Andrea Camilleri: «Sono stato la Luna»

«Arrivare a 92 anni, mi sembrava pura fantascienza». Lo scrittore siciliano si raccontava così, a Vanity Fair, in una intervista di alcuni mesi fa
Andrea Camilleri «Sono stato la Luna»

Questa intervista è uscita nel 2018 su Vanity Fair

Camilleri è nel suo studio, al solito posto. Io vedo lui, lui intravede appena me perché negli ultimi tempi la vista lo ha abbandonato. Ma non lo hanno abbandonato la memoria prodigiosa, le battute pronte, l’abilità di narratore. Le donne della sua vita (la moglie, le tre figlie) sono intorno a lui anche oggi. Entra una, esce l’altra, ritorna quella che era uscita prima. Se ne occupano, lo coccolano. E, del resto, lui dice: «Se una donna non mi coccola, io ci rimango male, sono troppo abituato. Da sempre. Quando ero già sposato con Rosetta e avevamo già avuto le tre bambine, nell’appartamento accanto al nostro convivevano pacificamente, e questa è la cosa più misteriosa, le due consuocere rimaste vedove. Avevamo anche una cameriera che stava con noi da vent’anni, di nome Italia. La mattina Rosetta andava in ufficio, io potevo stare a letto un po’ di più e ci stavo. Subito, arrivava mia madre con una tazzina di caffè, seguita da mia suocera con la seconda tazzina di caffè. Fino a quando entrava Italia: “Pigliatevi ’o ca è, che quelle due non lo sanno fare”». Quattro anni fa, in famiglia è entrata un’altra «donna», la prima pronipote. Si chiama Matilda, è figlia di Alessandra che è figlia di Andreina, la primogenita. A Matilda, che ha quattro anni, è dedicato il libro Ora dimmi di te, che uscirà il 29 agosto. Non è un romanzo, ma una sorta di autobiografia di Camilleri, sotto forma di lettera alla bambina. Il bisnonno racconta la sua infanzia in Sicilia, l’Italia sotto il fascismo, il ’68, anno in cui occupò l’Accademia d’arte drammatica di Roma insieme agli studenti, il teatro e la televisione e, ovviamente, la nascita di Montalbano.

Matilda è l’unica pronipote?«No, da otto mesi ha anche un fratello che è stato chiamato come me, Andrea. Ma lei gli ha dato un nome diverso: Foglia. Così, per ora, lo chiamiamo tutti Foglia».

Si aspettava di diventare bisnonno?«Ma no. A 40, 50 anni pensavo che non sarei mai arrivato al 2000, questa data fantascientifica»

E arrivarci in questo modo! Oltre cento libri, traduzioni in 37 Paesi, una notorietà che pochi scrittori hanno.«Al mercato mia moglie ha più volte ascoltato questa frase: “Vedi quella, è la signora Camilleri, la moglie di Montalbano!».

Montalbano è un monumento nazionale.«Infatti, ogni tanto qualcuno mi scrive: lei la devenire di prestare le sue idee politiche a Montalbano. Montalbano è nostro e non le appartiene più».

Quanto è stata presente la politica in 92 anni di vita?«Sempre. Da ragazzi eravamo fascisti e credevamo che quella fosse l’unica possibilità politica. Per me tutto cambiò il giorno in cui partecipai, a Firenze, a un grande raduno della gioventù internazionale nazifascista. Parlò Baldur von Schirach e delineò l’Europa del futuro in caso loro avessero vinto la guerra, cosa di cui erano certi. Io mi vidi all’improvviso dentro un casermone grigio, tutti in divisa, con un unico libro da leggere, il Mein Kampf di Hitler. Provai una sensazione di terrore».

Però non ha mai fatto politica in prima persona.«No, mi sono sempre rifiutato. La prima volta, quando il Pci mi offrì una candidatura blindata, la seconda quando dei vescovi siciliani, non so perché proprio i vescovi, si misero in mente di chiedere all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di farmi senatore a vita. Li ho pregati quasi in ginocchio per evitare una cosa simile».

Perché?«La politica è una cosa seria, bisogna dedicarcisi davvero e io sapevo che avrebbe portato via troppo tempo alla scrittura. Ma intervenire da cittadino è una cosa che ho sempre fatto e che farò sempre, no a quando potrò».

È pessimista sul futuro?«Anche se tutto il mondo cospira per farmi diventare pessimista, io resisto. L’uomo è quello che dice “schiattate nel mare, migranti, non me ne fotte nulla di voi”, ma è anche novanta volontari subacquei che vanno a salvare quei ragazzi in Thailandia. L’uomo è così, meravigliosamente contraddittorio. Io ho fiducia nella parte buona».

In Ora dimmi di te sono citati molti libri, è quasi un’autobiografia letteraria.«Mio padre era ispettore delle capitanerie di porto per la costa meridionale della Sicilia, non era certo un intellettuale, ma aveva una libreria molto ben fornita, con un fiuto straordinario per i bei libri: Melville, Conrad, i francesi e gli anglosassoni...».

Il giovane Andrea legge molto. In seconda ginnasio, addirittura, smette di andare a scuola per starsene in giro a leggere.«E di conseguenza viene mandato in un collegio vescovile, ad Agrigento, su una collina. È stata un’esperienza orrenda, però credo che abbiano pianto di più i miei genitori a stare lontani da me. Ero figlio unico. La sera mi immalinconivo un po’ guardando da lontano le luci del mio paese, di giorno ne combinavo di tutti i colori sperando che mi sbattessero fuori. Le punizioni erano orrende, tipo: stare due ore in ginocchio a meditare sulle mie malefatte, mentre i miei compagni andavano a dormire».

Camilleri prima di Montalbano è soprattutto docente di teatro e regista. La parte migliore di quel lavoro?«Vedere in che modo gli attori riuscivano a restituire quello che chiedevo. Era tutta una questione di psicologia e diplomazia perché dovevi sempre capire come era fatto l’uomo attore. Con alcuni bisognava ragionare, con altri giocare di sponda, con qualcuno non c’era niente da fare e ti veniva da dare testate contro il muro».

Gli allievi migliori?«Per esempio, Marco Bellocchio al Centro Sperimentale. All’inizio studiava recitazione, proprio con me. Ma si capiva che non era a suo agio. Si vergognava come un ladro quando saliva in palcoscenico, si metteva di spalle, cercava di scomparire. Alla fine del primo trimestre, lo presi in disparte e gli dissi: “Sei un ragazzo intelligentissimo ma perché vuoi fare l’attore? Non mi sembra il tuo mestiere”. E lui confessò di essersi iscritto al corso di recitazione perché era l’unico disponibile. In realtà, avrebbe voluto studiare per diventare sceneggiatore. Mi diede da leggere delle sue cose, erano davvero interessanti. Io parlai con il direttore e lo trasferimmo al corso di sceneggiatura».

Come è nata l’idea di scrivere in siciliano?«Era il ’67.Mio padre stava morendo e io ho trascorso un mese intero in clinica, accanto a lui. Avevamo tante cose da chiarirci e oggi posso dire che è stato bellissimo, nonostante la situazione. Un giorno mi chiese di raccontargli una storia, io da tempo avevo in mente quello che poi sarebbe diventato il mio primo romanzo, Il corso delle cose, e glielo raccontai. In siciliano, come si parlava tra di noi. Alla fine, mio padre mi disse: “Promettimi che lo scriverai e che lo scriverai così come lo hai raccontato a me”».

So che siete sommersi dalle email di giornalisti e anche di semplici lettori da tutto il mondo. Che cosa scrivono?«Fanno tutti le stesse domande, dalla Francia alla Cina! Però a volte vogliono solo raccontare la loro storia. Per esempio, non molto tempo fa, uno mi ha mandato una lettera in una busta contenente una sua foto, un uomo sui cinquant’anni, con accanto una signora e due ragazzine. E scrive: “Questa è la mia famiglia. Solo ora mi sento di raccontarle quello che mi è successo nel 2001.Mi era caduto il mondo addosso perché avevo scoperto che la persona che amavo mi tradiva. Ero, e sono tuttora, infermiere all’ospedale di Bari. Rubai del veleno e mi portai a casa ampolla e treppiedi per le flebo. Mi misi a letto e infilai l’ago nel braccio. Siccome la cosa sarebbe stata lunga, presi dal comodino un libro che avevo comprato ma non ancora aperto: Il re di Girgenti. Dopo un po’ mi sono trovato a sorridere, ho staccato l’ago e ho continuato a leggere fino alle cinque di mattina. Tre anni dopo ho incontrato un’altra donna e mi sono sposato. Le devo la vita”. Ecco, quando penso a quella lettera, mi consolo di tante cose perché penso che, in fondo, tutto quello che ho fatto non è stato inutile».

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