Tra Berlino e Filadelfia, Zurigo e New York, Beatrice Rana, star ventiseienne del pianismo internazionale, trova sempre il modo di tornare in Puglia. Dov’è nata, dove l’aspettano famiglia e amici e dove, dice, «finalmente c’è il mare, che per me significa relax completo». Ma proprio in Salento, in perfetto spirito glocal, questa ragazza che la BBC ha inserito fra i New Generation Artists, che Sergio Mattarella ha nominato Cavaliere della Repubblica e i recensori più inflessibili hanno accolto con commozione per le sue Variazioni Goldberg dirige da tre anni un Festival, intitolato Classiche Forme e dedicato alla musica da camera. Questa volta si va in scena da oggi a domenica.

Le ha detto che Classiche Forme le dà l’euforia del fantacalcio, perché può convocare molti colleghi conosciuti per il mondo. C’è di sicuro, però, anche una necessità di organizzazione. Come se la cava?
«Intanto con un po’ di vertigine quando sento usare l’espressione “direttrice artistica”. Eppure quest’avventura è arrivata con un senso di necessità, come il completamento di un percorso. Quello che volevo era una casa musicale in cui abitare con molte persone speciali. Con loro ci s’incontra tra una sala da concerto e l’altra, magari di sfuggita. Ma ci s’intende, e viene voglia di condividere dei progetti. Ecco, qui è possibile. Anche se programmare con anni di anticipo non è semplice».

Chi viene a trovarla a casa quest’anno?
«Sono soddisfatta del mix, molto bilanciato fra nomi italiani e internazionali. Ci sono artisti pugliesi di spicco, come il mio maestro Benedetto Lupo e il baritono Vittorio Prato. C’è il percussionista Simone Rubino, che conosco da quando avevamo 11 anni e vincemmo insieme il Premio delle Arti. C’è un altro percussionista, Andrea Toselli, e ci sono le violiniste Simone Lamsma e Anna-Louisa Kramb, e la violista Sara Ferrández, e le violoncelliste Ella van Poucke e Ludovica Rana, che è mia sorella».

Una forte presenza femminile, anche con una commissione affidata a Silvia Colasanti.
«S’intitola Lamento ed è il fulcro della terza serata, dedicata a Clara Wieck, una figura avveniristica, una pianista eccelsa che nell’800 ha precorso molti dei temi che caratterizzano anche il nostro tempo. Nel brano di Silvia Colasanti, per viola e violoncello, s’intreccia un dialogo ideale fra Clara e suo marito Robert Schumann».

È vero che voi artisti abitate tutti in una stessa villa?
«Sì. E nei giorni che precedono i concerti è possibile instaurare un rapporto più rilassato. Il momento del palcoscenico va goduto, preservato dallo stress che arriva per forza se non hai avuto abbastanza tempo per provare. Qui, finalmente, raggiungiamo quella scioltezza che ci permette di tentare qualcosa di nuovo».

Come si fa a convincere il pubblico giovane che la musica da camera non ha nulla di rigido o di paludato?
«Mettendoci entusiasmo. Non rinunciando mai alla qualità, ossia non cedendo sul livello dei programmi. E non mandando mai via nessuno: sarebbe un peccato mortale, per questo continuo a insistere su una politica di prezzi bassi. Quest’anno suoniamo in posti in grado di accogliere più gente, a Lecce il Chiostro del Seminario in piazza Duomo e Palazzo Tamborino Cezzi. I ragazzi decidono di venire a un concerto spesso all’ultimo momento: non bisogna ostacolarli con la necessità di prenotare molto anticipatamente. Può sembrare un sogno. Ma mi è sembrato possibile qualche anno fa in Francia, dove ogni piccolo paese ha un festival estivo di musica da camera».

Il suo Salento oramai è diventato il Salento di tutti?
«È vero che adesso lo hanno capito in tanti. Ma c’è una parte ombrosa, introversa, fatta di chiostri e di cortili misteriosi, che ancora aspetta di essere scoperta. Come il palazzo in cui suoneremo, che Ferzan Ozpetek ha utilizzato in molti suoi film ma che in pochi perfino a Lecce conoscono».