Rinchiusi per mesi, a centinaia, con un caldo soffocante, dentro hangar nel deserto della Libia occidentale pieni di vermi, spazzatura ed escrementi: abbandonati in queste condizioni, 22 migranti sono morti di malattia, di fame e sete da settembre. Non sono stati neanche sepolti perché mancano cimiteri per cristiani e i loro corpi sono stati ammassati in locali con l’aria condizionata o in frigoriferi. A testimoniare le torture dei detenuti a Zintan, del materiale giunto all’Associated Press e i racconti dei sopravvissuti, con i loro avvocati che accusano le agenzie umanitarie dell’Onu di aver “chiuso un occhio” davanti a quanto accadeva o di avere “risposto con troppa lentezza”.

L’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, Unhcr, ha negato le accuse, affermando di non aver potuto accedere a certe parti del centro, gestito da una delle molte milizie libiche. Il responsabile della struttura ha negato che vi sia stato alcun ostacolo all’accesso. A quanto risulta dai documenti in mano all’Associated Press, vi sarebbe stato del disaccordo tra l’Unhcr e altre agenzie circa le condizioni del centro. A Zintan i migranti all’interno del centro di detenzione che sono stati contattati hanno accusato l’Unhcr di averli abbandonati.

Le testimonianze riferiscono che i detenuti dovevano dividere ogni giorno un paio di secchi d’acqua fra tutti e che sopravvivevano a stento con un pasto al giorno. All’interno della struttura ci sono 700 africani, in maggioranza eritrei. Fino all’inizio di questo mese erano tenuti in un hangar di cui foto e video postati online dagli stessi migranti hanno attratto l’attenzione dei media. Successivamente sarebbero stati trasferiti in due strutture più piccole, ma in condizioni altrettanto critiche. Alcuni di loro sono stati sottoposti a punizioni e lasciati senza cibo né acqua per giorni. Medici senza frontiere ha confermato di aver trovato alcuni migranti fortemente malnutriti, alcuni con tubercolosi. Si stima che siano almeno 6mila i migranti rinchiusi in decine di centri di detenzione come quello di Zintan, gestiti da milizie accusate di ogni genere di abusi.

Il patto Italia-Libia, quando Minniti diceva: “Sui diritti farò battaglia personale”
L’Unhcr denunciò per la prima volta nel novembre 2017  le atrocità che avvengono nelle “terrificanti prigioni” in cui Tripoli rinchiude i migranti. In quell’occasione, l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein aveva definito l’accordo stretto dal governo Gentiloni con la Libia che prevede l’invio di mezzi navali italiani in supporto alle operazioni della cosiddetta “Guardia costiera libica“ come un patto “disumano“. L’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, architetto di quell’intesa, aveva difeso il suo operato sostenendo che “se l’Unhcr ha potuto visitare i centri in Libia, lo si deve anche all’impegno del nostro Paese”. Era il question time alla Camera del 15 novembre di due anni fa.

Due mesi prima, il 3 settembre 2017, alla Festa del Fatto lo stesso Minniti giurava: “Sui diritti umani per i migranti farò una mia battaglia personale“. Alludendo al progetto di inviare proprio osservatori internazionali di Unhcr e Oim nei centri di detenzione in Libia. Giusto 24 ore dopo che il premier Paolo Gentiloni aveva esultato perché, a suo dire, con quel patto con la Libia “abbiamo dimostrato che possiamo ridurre i flussi migratori senza rinunciare ai principi di umanità e di solidarietà“.

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