27 giugno 2019 - 21:49

Secchiona, statalista e patriota (di sinistra) Il ciclone Warren

La senatrice vince il primo dibattito tra i democratici. Mille idee per l’economia: la Casa Bianca non è più tabù

di Giuseppe Sarcina

Secchiona, statalista e patriota (di sinistra) Il ciclone Warren
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WASHINGTON Il primo dibattito tra i candidati democratici promuove in modo netto Elizabeth Warren. La senatrice del Massachussetts è stata anche favorita dal sorteggio: ha evitato il capolista nei sondaggi, l’ex vice presidente Joe Biden e il rappresentante di punta dell’area radicale, Bernie Sanders. I due si sono confrontati stanotte nel secondo girone a Miami.

I rivali potenzialmente più pericolosi, cioè Beto O’ Rourke e la senatrice moderata Amy Klobuchar non l’hanno attaccata direttamente. Un segnale di quanto Warren sia considerata, ormai da tutti, un avversario temibile.

L’economista di Harvard, 70 anni, si è candidata ufficialmente il 9 febbraio, con un comizio a Lawrence, storica città operaia del Massachussetts. Per diverse settimane i suoi incontri con la base non hanno superato la dimensione di una riunione di condominio. I sondaggi registravano appena la sua flebile presenza. Verso la metà di marzo ha cominciato a partecipare alle «town hall», i confronti con gli elettori organizzati dalle principali tv. E le sue quotazioni sono cresciute. Ha scavalcato prima O’Rourke, poi Kamala Harris, e infine l’emergente Pete Buttigieg.

Ora diversi opinionisti americani pensano possa crescere ancora. Uno di loro è Nicholas Kristof che ha scritto un editoriale sul New York Times titolato:«Perché mi ero sbagliato su Elizabeth Warren». Tra le diverse ragioni del ripensamento di Kristof, due volte Premio Pulitzer, questa è forse la più interessante: «Si è rivelata un “geyser” di proposte intelligenti. Quella che mi piace di più è l’introduzione di un programma sanitario per i bambini. Ma spazia dalla riforma elettorale, al piano casa, dall’antitrust alla governance d’impresa. E inoltre sostiene la necessità di una tassa sui patrimoni per finanziare i piani sociali».

Sul palco di Miami Warren ha potuto scorrere solo per titoli la sua offerta politica, incardinata sull’economia: «La crescita del Paese sta premiando solo l’1% più ricco della popolazione, le grandi industrie del farmaco, del petrolio, i big della tecnologia». Soluzione: aumentare i salari per i lavoratori e le imposte per i milionari; abolire la sanità privata; decuplicare gli investimenti pubblici in ricerca; incentivare le imprese a entrare nel mercato mondiale dell’energia rinnovabile. «Vale 23 mila miliardi di dollari: questo è il futuro».

Il Peterson Institute for International Economics, uno dei centri studi più importanti di Washington, ha analizzato nel dettaglio quello che Warren ha chiamato il «Piano per il patriottismo economico». Un postulato: le multinazionali sono la rovina dei lavoratori americani. Delocalizzano gli stabilimenti, schiacciano i salari. Una formula: il governo deve riprendere e centralizzare il controllo della politica industriale, orientare gli investimenti, impedire la fuga delle imprese, incentivare il consumo di prodotti americani. E se necessario, si dovrà manovrare sul cambio per favorire le esportazioni del «Made in Usa». I due economisti del Peterson, Monica de Bolle e Jeronim Zettelmeyer, osservano che «il patriottismo economico» di Warren somiglia all’«America First», al protezionismo di Donald Trump. Cambia, però, la prospettiva. Per Warren il mondo è «labour centrico». Per Trump... non si è ancora capito bene.

Questa impostazione si ripete anche nella politica estera. In un articolo scritto per Foreign Affairs (numero gennaio-febbraio 2019) Elizabeth legge tutte le relazioni internazionali degli Stati Uniti in chiave sostanzialmente economica. Le scelte di ieri e di oggi, le guerre in Afghanistan e in Iraq, la crisi con l’Iran, lo scontro commerciale con la Cina, sono state e sono condotte nell’interesse delle grandi corporation americane. Un’analisi un po’ vaga: questo è il lato più debole della candidatura Warren.

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