Squadra femmina

Mentre saltavo sul divano dopo il gol di Aurora Galli alle cinesi, ho intuito che dentro di me stava cadendo l’ultimo fortilizio del maschio italico. Per quelli della mia generazione, il calcio rimaneva un rito di iniziazione patriarcale. Lo si incontrava per la prima volta nel cortile della scuola, facendo a botte con i compagni dietro una palla sgonfia, e poi allo stadio, dove si entrava come in un tempio, trattenendo il respiro aggrappati alla manona di papà. Le ragazze non erano interessate alla cerimonia e, anche quando cominciarono a esserlo, ci parve scontato che si dovesse trattare di una cooptazione. I sacerdoti del rito restavamo noi. Loro potevano tifare, persino acquisire competenze su schemi e congiure arbitrali, ma sempre all’interno di un meccanismo che restava tale solo se i suoi protagonisti erano uomini. Il nostro concetto di parità si limitava agli sport praticati con le mani. Era naturale applaudire una tennista o una pallavolista, ma palpitare per lo stop di una calciatrice non rientrava nell’ordine delle cose.
Perché le donne riuscissero a occupare l’ultima ridotta del nostro immaginario - l’estate nel pallone - non bastava che i calciatori maschi la disertassero: l’anno scorso la Nazionale, adesso l’Under 21. Dovevano apparire queste ragazze toste e gentili. Capaci di vincere all’italiana, cioè in contropiede, per la gioia postuma di quel Gianni Brera che definì l’Italia «squadra femmina» e mai avrebbe immaginato di avere così ragione.
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26 giugno 2019, 07:14 - modifica il 26 giugno 2019 | 09:13

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