15 giugno 2019 - 23:04

Zingaretti cambia i vertici del Pd
L’ira dei renziani esclusi

Varata la segreteria senza uomini dell’ex premier. I dem lacerati dal caso Lotti

di Monica Guerzoni

Zingaretti cambia i vertici del Pd L'ira dei renziani esclusi
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ROMA Nicola Zingaretti prova a riportare sui binari il treno del Pd, che rischia di deragliare per la bufera che ha investito le procure. Il leader vara la nuova segreteria, de-renzizzata e de-lottizzata e si mostra concentrato sulla sfida al governo, più che sulle tensioni interne innescate dalle intercettazioni di Luca Lotti. L’ex ministro si è autosospeso e Zingaretti ha fretta di chiudere la vicenda.

Il segretario non alzerà i toni e non caccerà nessuno. Resta convinto che tenere una linea «equilibrata e unitaria», evitando processi sommari, sia l’unico modo per prendere distanze da eventuali responsabilità, senza spaccare il Pd. Il rischio di una scissione non è affatto scongiurato e perché l’ira di Lotti (e di Matteo Renzi) non inneschi la mina, Zingaretti cerca di gestire la crisi nel modo più soft, attento a non farsi schiacciare su una linea giustizialista.

I renziani insorgono, contestano la segreteria e ironizzano sul nuovo Pd, che «da partito del noi è diventato il partito loro». Martedì in Direzione nazionale Zingaretti metterà ai voti la sua «bella squadra, con donne, giovani, gente di esperienza». E pazienza se per la minoranza odora di vecchio e di sinistra: Andrea Martella coordinatore, Enzo Amendola agli Esteri, Andrea Giorgis alle Rifome e poi Roberta Pinotti, Roberto Morassut, Marina Sereni... Zingaretti ha chiamato Giorgio Gori a presiedere il forum degli Amministratori, eppure il renzianissimo presidente dei senatori del Pd, Andrea Marcucci, ci vede «un’unica matrice identitaria».

La versione del Nazareno è che la scelta di restare fuori dalla porta sia stata degli stessi renziani, per quanto Zingaretti abbia chiamato i capicorrente di minoranza offrendo loro una gestione il più possibile unitaria. Roberto Giachetti, leader della mozione «Sempre avanti» che si sta saldando con la corrente di Lotti, avrebbe detto un secco «no grazie». Maurizio Martina invece ha accettato l’incarico di presidente della Commissione di Riforma del Partito e dello Statuto. Zingaretti fa sapere che aprirà i futuri dipartimenti «alle sensibilità diverse delle minoranze congressuali» e i renziani duri e puri si preparano a cestinare l’invito.

La fragile tregua è incrinata, il partito è nel caos. Walter Verini e Giachetti litigano sul correntismo che avvelena i pozzi. Il senatore Luciano D’Alfonso, che è stato presidente dell’Abruzzo, difende Lotti e accusa di inadeguatezza Zingaretti: «Vertici sospesi rispetto alla realtà». Andrea Orlando, ex Guardasigilli e vicesegretario vicario, annuncia querele: «Alcuni vigliacchi chiamano in causa la mia persona... Voglio invitare gli anonimi diffamatori a palesarsi». Lo accusano di aver brigato per portare Giovanni Melillo, suo ex capo di gabinetto al ministero della Giustizia, a capo della Procura di Napoli. E Orlando si arrabbia, rivendica di aver scelto come collaboratori al ministero della Giustizia «alcuni dei migliori magistrati italiani» e assicura di essersi sempre astenuto da ogni ingerenza, rispettando l’autonomia del Consiglio superiore della magistratura.

Giovanni Legnini, che del Csm è stato vicepresidente, esprime «turbamento e sconcerto». E il vicepresidente in carica dell’organismo di autogoverno dei giudici, David Ermini, si tira fuori dalla tempesta di fango che sporca i vetri del Nazareno: «Accostarmi a queste trame è un fatto di gravità inaudita». Michele Anzaldi assiste allibito allo scontro e commenta, con una parola sola: «Tafazzismo».

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