Il senso della democrazia nell’epoca di Donald Trump

Il senso della democrazia nell'epoca di Donald Trump

Negli ultimi tempi si sente parlare spesso della fine imminente della democrazia. L’inarrestabile ascesa della Cina, la comparsa sulla scena internazionale di uomini forti (o che si credono tali) in diversi Paesi democratici quali India, Turchia, Brasile e altrove, e la crescita del populismo illiberale, declinato nelle più svariate versioni, tutto ciò sembra talvolta suggerire che la democrazia sia ormai incamminata sul viale del tramonto. A guardare da vicino, tuttavia, si avverte che i timori più diffusi per il futuro della democrazia sembrano scaturire dall’irrigidimento delle posizioni internazionali nei confronti di Donald Trump e degli Stati Uniti d’America.

Difatti, un’analisi attenta degli atteggiamenti che si fanno strada in diversi Paesi non di rado rivela risultati sorprendenti. Confrontiamo, ad esempio, l’opinione pubblica in Giappone e in Cina. Di recente, Trump si è recato in visita in Giappone, dove è stato magnificamente accolto, con tanto di tappeto rosso e poltrone in prima fila all’incontro di sumo. Per di più, ha avuto l’onore di essere il primo capo di Stato ad incontrare il nuovo imperatore. Stati Uniti e Cina, nel frattempo, affilano le armi in una guerra commerciale ormai ampiamente dichiarata. I dazi americani, applicati a prodotti cinesi per un valore di 200 miliardi di dollari, entreranno in vigore questo stesso mese. La Cina, dal canto suo, ha risposto fermando gli acquisti di soia dai coltivatori americani. In reazione alla stretta americana sul gigante cinese delle telecomunicazioni, Huawei, la Cina minaccia di tagliare le esportazioni di terre rare verso gli Stati Uniti, ingredienti indispensabili per la produzione di apparecchiature tecnologiche.

Il Giappone è una democrazia rappresentativa legata agli Stati Uniti da un trattato di alleanza. La Cina, invece, resta uno stato poliziesco. Il presidente Xi Jinping continua a rafforzare la sua presa sul Partito comunista cinese, che gode del monopolio assoluto del potere politico interno. Le riforme economiche hanno consentito a centinaia di milioni di cinesi di uscire dalla povertà, pur avendoli privati delle libertà e dei diritti considerati sacrosanti in Giappone e nelle altre democrazie.

Ma in quale Paese l’opinione pubblica è più marcatamente a favore degli Stati Uniti e del suo sistema politico? Un recente sondaggio internazionale, realizzato dall’Eurasia Group Foundation (Egf), l’organizzazione no-profit che presiedo, ha scoperto che per ogni giapponese che si dichiara a favore della democrazia americana ce ne sono tre che la criticano aspramente. Una maggioranza preponderante di giapponesi si augura «una netta differenziazione tra il loro sistema di governo e quello degli Stati Uniti» nei prossimi vent’anni.

In Cina, sorprendentemente, il triplo degli intervistati sostiene invece: (1) di essere favorevole a un governo più simile a quello degli Stati Uniti; (2) di ammirare gli Stati Uniti; e (3) di condividere i principi della democrazia americana. Quando agli intervistati è stata sottoposta la domanda di elencare quindici nazioni specifiche con la migliore forma di governo, l’America è arrivata seconda, subito dopo la Cina stessa. La forma di governo in vigore negli Usa ne emerge quasi due volte più popolare rispetto a quella del Regno Unito, e quasi tre volte rispetto a quella di Francia e Russia.

Che cosa significa tutto questo? Che l’opinione pubblica nei confronti di un dato Paese straniero non è direttamente, né prevedibilmente, influenzata dalla sua politica estera. Il Giappone sarà pur riconoscente verso gli Stati Uniti perché si fa garante della sua sicurezza, ma gli elettori dell’isola di Okinawa hanno votato un sindaco che ha promesso di sfrattare la base militare americana dal suo territorio. Il presidente cinese potrebbe anche imporre, per rappresaglia, i dazi alle importazioni americane, ma ciononostante la popolazione cinese continuerebbe ad agognare le libertà politiche consentite negli Stati Uniti.

Una situazione paradossale, questa, che il governo cinese sembra afferrare con chiarezza. Da qualche tempo, infatti, si sta adoperando per sensibilizzare il pubblico cinese a uno scontro economico sostenuto. La CCTV-6, il principale canale di cinema in Cina, ha cominciato a mandare in onda film che esaltano la resistenza contro quella che viene percepita come un’aggressione americana, tra cui diversi che trattano della guerra di Corea. I risultati del sondaggio suggeriscono tuttavia che questi sforzi potrebbero alterare solo marginalmente gli atteggiamenti verso gli Stati Uniti, ma non andranno a intaccare in modo significativo le crescenti aspirazioni della popolazione cinese per maggiori libertà e responsabilità pubblica in patria.

Sebbene la democrazia liberale sia costretta ad affrontare anch’essa tutta una serie di criticità, la relazione dell’Egf suggerisce tuttavia che i popoli dei Paesi analizzati tendono a percepire un netto divario tra le attuali politiche del governo americano e i principi dei diritti e delle libertà individuali garantiti dalla democrazia americana. E questo è vero soprattutto in Asia. Qui le istituzioni che appoggiano la democrazia — e le alleanze che la proteggono — potrebbero essere sottoposte a una salutare revisione, come in Giappone (e altrove). E ci sono Paesi che potrebbero veder migliorare sensibilmente i propri standard di vita sotto un modello politico drasticamente diverso, come in Cina (e altrove).

Ciò malgrado, l’aspirazione umana di base per la libertà individuale, che si incarna nel principio fondamentale della democrazia liberale, continua a esprimersi in modi diversi all’interno di culture politiche diverse da un capo all’altro del pianeta. Ed è, e resta, un’aspirazione che gli uomini forti del momento non riusciranno a soffocare.

(traduzione di Rita Baldassarre)

14 giugno 2019, 21:41 - modifica il 15 giugno 2019 | 08:37

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