Interventi

Salario minimo, diritti e centralità dei contratti

di Claudio Lucifora

(© Begsteiger)

3' di lettura

Nel dibattito politico il tema dei salari e della giusta retribuzione hanno sperimentato un’inattesa accelerazione e un sorprendente consenso tra le parti politiche. Il lavoro povero è aumentato durante la crisi, ma anche nella fase di ripresa occupazionale la maggioranza dei posti di lavoro creati sono soprattutto nelle basse qualifiche e a basso salario. Oltre alla diffusione del lavoro povero, anche i livelli dei salari hanno subìto forme di dumping contrattuale in seguito alla proliferazione di contratti collettivi firmati da organizzazioni poco rappresentative (i cosiddetti “contratti pirata”). L’assenza di un meccanismo di estensione erga omnes dei contratti collettivi, a cui alcuni dei disegni di legge in discussione al Parlamento cercano di porre rimedio, hanno di fatto aperto ampi margini di discrezionalità alle imprese che, soprattutto in alcuni comparti, hanno fatto shopping contrattuale applicando accordi economicamente più convenienti con minimi tabellari più bassi e minori garanzie accessorie. Alcuni studi mostrano come, in media, il 10% dei lavoratori dipendenti, con punte fino al 30% in alcuni comparti, siano pagati al di sotto dei minimi tabellari definiti dai contratti collettivi maggiormente rappresentativi.

Nei disegni di legge in discussione, il tema del salario minimo viene affrontato quasi esclusivamente in termini di “dignità” dei lavoratori, quasi dimenticando come vi sia un trade-off tra salari e occupazione, tra costo del lavoro e competitività delle imprese. Gli effetti complessivi sul benessere degli individui, sull’occupazione e sulle diseguaglianze vengono quindi a dipendere dal livello al quale il salario minimo viene fissato. Un livello troppo basso rischia di essere inefficace, mentre se il livello è troppo alto gli effetti rischiano di essere controproducenti spiazzando l’occupazione e aumentando le diseguaglianze.

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Il rischio maggiore che si presenta nella fretta con cui il governo intende affrontare il tema della regolazione dei minimi salariali è quello di un suo utilizzo a fini politici, in effetti non nuovo nel panorama internazionale. Basta guardare alla promessa di Bernie Sanders, in corsa per le primarie democratiche in vista delle presidenziali del 2020 negli Stati Uniti, di portare il salario minimo federale (orario) a 15 dollari; oppure del presidente francese Emmanuel Macron, di fronte alle proteste dei gilet gialli, di aumentare lo Smic francese (mensile) di 100 euro. Con le elezioni europee alle porte il rischio è molto elevato.

Per evitare che uno strumento utile al nostro mercato del lavoro si trasformi in un’arma a doppio taglio alcune cautele sarebbero necessarie. In primo luogo, sembra fondamentale che l’introduzione di un salario minimo in un mercato del lavoro come il nostro, che pur da tempo soffre di vari mali - la crescita dei “contratti pirata” e la diffusione di forme di lavoro precario (rider, lavoro in cooperativa) -, eviti di scardinare l’attuale assetto di regolazione dei salari. Pertanto sarebbe opportuno separare, nei provvedimenti legislativi in discussione, il disegno complessivo dello strumento del salario minimo dal livello monetario al quale lo stesso debba essere fissato e dalle modalità di adeguamento nel tempo. Il compito di istruire e proporre al Parlamento il livello a cui fissare il salario minimo potrebbe essere demandato, come già avviene in Francia, Regno Unito, Germania, a un’agenzia indipendente composta da esponenti delle parti sociali e da esperti. In alternativa, per evitare di creare nuovi organismi, si potrebbe investire il Cnel di tale compito. In secondo luogo, il salario minimo non dovrebbe interferire con il sistema di relazioni industriali con cui vengono fissati, attraverso la contrattazione collettiva nazionale, i minimi retributivi tabellari. Il salario minimo dovrebbe svolgere una funzione di “minimo di garanzia” (una sorta di minimum minimorum) per tutti quei lavoratori che non godono della copertura dei Ccnl firmati dalle associazioni comparativamente più rappresentative, o per quei lavoratori che si trovano in lavori con scarse tutele per i quali il salario minimo orario potrebbe fungere da riferimento indipendentemente dal tipo di contratto applicato.

In questo contesto, anche a fronte della progressiva erosione dell’efficacia dei Ccnl, il salario minimo potrebbe costituire un complemento alla contrattazione collettiva e non un sostituto come viene spesso sostenuto. Infine, data l’eterogeneità delle imprese e dei territori sul territorio nazionale, pur nella inderogabilità dei minimi salariali di legge, il sistema dovrebbe godere di una certa flessibilità escludendo, come già avviene negli altri Paesi, alcune categorie di lavoratori (molto giovani, apprendisti, ecc.), e consentire alla contrattazione collettiva di secondo livello, a fronte di situazioni di comprovata difficoltà per le imprese o i territori, di derogare temporaneamente ai minimi salariali, proprio per evitare di penalizzare quei lavoratori che rischiano di essere spiazzati nella disoccupazione o nell’economia sommersa.

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