Sarebbe bello se negazionisti, revisionisti, relativisti e altri sciaguratisti andassero al teatro Carignano dove Valter Malosti dà corpo e voce a Primo Levi e a Se questo è un uomo, il memoriale che, dopo le incomprensioni e i rifiuti editoriali, era destinato a entrare come un chiodo nella coscienza di chi in un primo momento non intendeva neppure ascoltare.

Se questo è un uomo costituisce il troncone principale della rassegna «Me, mi conoscete» con cui Malosti celebra lo scrittore a cent’anni dalla nascita (tra le altre cose il progetto comprende Il sistema periodico, con Luigi Lo Cascio). Prodotto dal Tpe, dallo Stabile di Torino e dal Teatro di Roma, è stato adattato per la scena da Domenico Scarpa, che di Levi è il finissimo studioso, e si offre al pubblico nella forma della condensazione sonora, forse l’unica in grado di esprimere l’inesprimibile, ossia l’annientamento metodico dell’uomo.

Ciò che Malosti porta in scena è un’immersione nell’inferno con lo stesso sgomento di Dante. E non a caso Dante arriva a tratti con folate brevi. Lasciate ogni speranza… Non si può dire altro varcando il cancello di Auschwitz dopo il lungo viaggio in carro bestiame dal campo di Fossoli a quella località polacca dal nome sconosciuto. Qui l’ebreo Levi e gli altri sventurati come lui vedranno subito come è fatto il nuovo inferno: una stanza vuota dove si sta nudi, infreddoliti, assetati e dove da un rubinetto gocciola acqua che non si può bere. Qui Levi vedrà come è facile morire «per un sì o per un no» e come l’assurdo sia elevato a regola.

Levi si dichiara fortunato. E in effetti la fortuna lo salva. La fortuna fa in modo che in quella fabbrica di morte lui si metta a esercitare il suo mestiere di chimico dopo un «esame» del dottor Pannwitz e possa mangiare un po’ di più, evitare il freddo e la fatica fino a quando non arriveranno i liberatori russi e lentamente il sopravvissuto potrà tornare a sentirsi uomo.

Auschwitz - lo diceva anche Primo Levi - è Babele: un caos di lingue, di voci, di toni. Ed è su questo nucleo che lavora Malosti. Vestito non senza eleganza e con una valigia in mano, l’attore occupa il suo minuscolo spazio e non lo abbandona quasi mai, così come non abbandona la valigia. Da qui racconta, da qui parla e a tratti si ascolta parlare, segue il filo di un ritmo che non è mai uguale a sé stesso, sostenuto dai suoni di Gup Alcaro e contrappuntato dai madrigali di Carlo Boccadoro ispirati da tre poesie di Levi. Nella sua condensazione sonora, nella scena scura e scabra di Margherita Palli, lo spettacolo ha una sua severità, vive di luci basse, appare misurato e raffinato, a tratti persino calligrafico, tutto stretto intorno a un parlare privo d’odio, ma severo come un destino. È ciò che ipnotizza gli spettatori, i quali erompono alla fine in un applauso la cui durata sembra voler dire a sua volta qualche cosa, magari sembra esprimere un altro racconto, interiore e turbato. Si replica fino al 12 maggio.

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