La grotta di Manitou è buia, anche se fuori brilla il sole primaverile caldo dell’Alabama. Un gruppo di archeologi si addentra seguito da ricercatori Cherokee. Qualche giorno dopo in un’edicola di provincia esce un giornale di archeologia, quasi sconosciuto fuori da circoli accademici, Antiquity, il numero di aprile 2019, con una notizia che passa nell’ombra, ma che per altre civiltà si studierebbe a scuola come uno spartiacque epocale: la prima prova sul territorio americano di un sillabario, di un alfabeto scritto della tribù dei Cherokee, nelle iscrizioni nella roccia. Si descrive, un gioco, ma anche un rito magico avvenuto nel 1828; alcune frasi sono pensate per essere lette da chi cammina da dentro verso l’esterno.

I Cherokee, come le migliaia di tribù nel territorio nord-americano, hanno tramandato una tradizione orale e artistica che risale a 6000 anni fa, ma la scoperta di questo sillabario e dei messaggi lasciati da un capo spirituale è straordinaria. «Non avrei mai pensato di poter vedere dei documenti scritti nelle caverne» dice Julie Reed, storica esperta di cultura nativo-americana a Penn State.

In pochi anni, a partire dal 1825, la tribù dei Cherokee - che spaziava dalla Georgia al Tennessee, alla Carolina del Nord e del Sud - aveva sviluppato un linguaggio scritto ed era alfabetizzata, esperta in codici diversi dal linguaggio dei segni e dai dialetti immortalati nei film o legati alla tradizione orale. Queste scritte erano state fotografate da esperti, sorpresi dal non riconoscere l’alfabeto. E gli archeologi, fino ad oggi, hanno avuto difficoltà ad entrare nella grotta perché i vecchi proprietari del terreno proibivano l’accesso.

L’Alabama era stata un luogo di rifugio dagli inglesi che nel 1830 avevano creato un campo di concentramento a Willstown (oggi Fort Payne). Tra gli abitanti c’era Sequoyah (in inglese qualche volta soprannominato George Guess) un saggio Cherokee, un argentiere che si inventò un alfabeto di simboli ognuno corrispondente a 85 sillabe, creando un linguaggio che sarebbe poi stato usato anche per pubblicare il primo giornale nativo-americano, Cherokee Phoenix.

Sulle pareti della grotta è descritto un gioco di squadra, che è un rito di sangue, («sangue che colava da bocche e nasi» scrive sulla caverna il figlio di Sequoyah) e però implicava anche tirare una palla e fare “goal”, usando attrezzi simili alle mazze che si usano per il Lacrosse: il gioco serviva a risolvere dispute tra comunità ed era anche un rito propiziatorio da celebrare prima delle guerre. Oggi lo sport, fuori e dentro gli stadi, è in fondo è una versione più “sicura” di questo… così come fin dai tempi degli antichi Greci le Olimpiadi fermavano le guerre.

Da un lato l’invenzione della scrittura uccide in parte la tradizione orale, come successe anche per altri popoli, dall’alta arriva in un momento che spinge la tribù a preservarne le tradizioni. Lo scontro con le leggi del Presidente Jackson, l’isolamento e il “trail of tears”, il sentiero delle lacrime, lo shock culturale tra cristianesimo che voleva educare i nativi e lasciare le donne a casa e spedire gli uomini al lavoro, mentre il campo indiano aveva regole di vita opposte, scoppiò poi con la nota violenza, le malattie e con poche eccezioni di convivenza.

L’America rimane ancora oggi intrisa di un odore di macchina nuova, si dimenticano capitoli incredibili di incontri illuministici, la storia ebraica del 1600 di città come Charleston, chiese dello stesso periodo di Notre Dame a New York, documenti del 400 in Virginia e popoli che inventano la scrittura mentre Edison e Tesla creavano la rivoluzione tecnologica. E anche gli indiani d’America, seppur così centrali nell’immaginario, si perdono fra le righe. Uno dei capitoli più affascinanti e mai raccontato, per esempio, riguarda i rapporti tra gli indiani d’America e gli schiavi africani arrivati in un altro giorno di aprile, nel 1502.

Si conoscono fin troppo bene i loro ruoli fissi: vittime nei western (o buoni/ingenui in alcuni, ma presi in giro), fonte di un vago sapere antico ma troppo romanticizzati nei film degli anni 80 e 90 (Piccolo Grande Uomo, L’ultimo dei Moicani, Vento di passioni), spesso interpretati da attori bianchi, inventori involontari del new age e fornitori di acchiappasogni ed erbe per purificare le case. Oggi apprezzati più o meno da tutti, ma al centro battaglie di diritti civili. Poi le riserve che diventano casinò, le trappole per turisti e le trappole vere dell’alienazione, di vite spezzate da alcol, obesità, discriminazione.

Sharice Davids (Democratica) è stata la prima donna nativa americana eletta al Congresso nel 2018 ( e anche la prima donna apertamente gay). Con lei è stata eletta anche Deb Heeland (Democratica), e in passato Markwayne Mullin (Repubblicano). Una delle candidate alla Presidenza, Elizabeth Warren, ha creato scandalo vantandosi della sua discendenza nativo-americana, dopo un test del DNA controverso (per questo viene soprannominata da Trump ‘Pocahontas’ in modo dispregiativo). La parte mitica, nel senso antropologico, quello dell’iniziazione, come gli eroi di Joseph Campbell, prescinde dalle narrative limitate di chi vuole riscrivere la storia nel nome di ideologie recenti o al contrario razziste.

E’ vero che la cultura hippy, oggi mainstream e dominante grazie al cinema, alla musica, letteratura e la Silicon Valley, il mondo di Berkeley, Stanford, la Columbia, ma anche Sedona in Arizona, ha incorporato elementi della visione nativo-americana, più o meno rispettosamente. Gli ambientalisti in particolare quando parlano di essere un tutt’uno con la natura, di un’empatia con un universo animistico, devono molto a queste tribù. La Disney sarà stata naive per gli standard di oggi e poco accurata nella storia di Pocahontas, ma la sensibilizzazione all’idea che «i fiumi e i lampi sono miei fratelli e gli animali sono amici miei, insieme nel segreto della vita in un cerchio che per sempre esisterà» e che ogni cosa ha uno spirito, era il leitmotiv del cartone che è rimasto impresso nelle generazioni a venire.

La percezione del tempo, da un punto di vista occidentale, trova sempre difficile riuscire a concepire realtà immerse in diverse “timelines” storiche, come civiltà alla pari, perché colloca la scrittura ai tempi dei sumeri e dei fenici, ma è ancora più affascinante vedere che dei codici millenari prendono tante forme. Il rischio è sempre quello di guardare queste realtà come uno zoo, quando invece quei codici, in un mondo di algoritmi, sono affascinanti perché li creiamo ogni giorno. L’alfabetizzazione ai codici è la nuova frontiera, nata da quella più antica.

Tra i bestseller degli ultimi anni ci sono libri come Sapiens di Yuval Noah Harari che ripercorrono la storia dei più grandi scatti in avanti dell’umanità, punti cruciali in cui enormi cambiamenti evolutivi e ambientali, dell’agricoltura, di sostanze consumate, hanno portato alla spiritualità, a percezioni diverse dell’essere umano, a nuove fasi. Viviamo in un’epoca dove oltre alle immagini, il potere che si è dato alla parola scritta è enorme. Nella grotta Manitou a scontrarsi nel gioco sulle pareti, erano due medicine-men, due stregoni : chi aveva la magia più forte vinceva (come in mille film Marvel, la mitologia moderna hollywoodiana, le serie più belle, il duello finale della Spada nella Roccia e le poesie di Jim Morrison).

Alcune iscrizioni devono ancora essere decodificate o non sono state condivise con il pubblico perché contengono descrizioni di cerimonie spirituali complicate. Sono frasi nascoste nel buio di una caverna per sfuggire ai missionari cattolici che disapprovavano tutto questo. Senza per forza mettere al rogo Cristoforo Colombo, se queste scoperte si studiassero come i miti greci e romani al liceo classico, si arriverebbe forse a una comprensione culturale meno eurocentrica, ma soprattutto apolitica.

Nel mondo attuale gli Indiani d’America sono ancora invisibili nei media o associati a stereotipi. La popolarità dei test del DNA a pochi dollari hanno fatto scoprire geni condivisi con certe tribù da molti americani (un gruppo etnico che abbraccia anche gran parte della Polinesia e del mondo asiatico però da millenni), ma anche lì il rischio è poi quello di spingere troppo l’acceleratore su una ricerca di se stessi fatta di viaggi di crescita e peyote nei boschi.

I cartoni come i Simpsons, le sit-com sono passati poi allo stereotipo (anche se basato su una realtà onnipresente) degli Indiani d’America come proprietari di casinò, ubriaconi e un po’ truffatori. Questo si collega anche all’archetipo del “trickster” di cui parla anche il libro Il grande racconto delle religioni di Giovanni Filoramo, creature che attraversano i confini delle dimensioni, ladri di fuoco alla Prometeo, folli che sono fondamentali a cerimonie sacre perché aprono alla dimensione della risata e della sorpresa, legati allo spirito del coyote o del corvo, fanno scherzi, ma vanno oltre ciò che ci si aspetta.

E’ anche vero che storicamente moltissimi cowboy erano messicani nell’800 e non assomigliavano a John Wayne e i western sarebbero stati molto più noiosi se avessero mostrato indiani, messicani, primi americani come autentici o immersi nella normalità, però forse avremmo una visione diversa del mondo.

L’appropriazione culturale derivata da un gruppo che opprime un altro, anche se considerata meno scandalosa della “blackface”, fa sì che oggi un bambino che si traveste da indiano riceva critiche. Dall’altro punto di vista, quando ci si innamora di una cultura e la si reinterpreta, conoscendola e rispettandola a fondo,si è arrivati anche a elementi più leggeri, assorbiti dalla cultura americana moderna. Da una parte si critica giustamente una squadra di football che si chiama ancora Redskins “pellerossa”, ma per esempio nelle scuole e nel linguaggio giovanile un momento in cui ci si ritrova insieme a parlare si chiama ancora oggi “pow wow”, dal rito indiano.

Thanksgiving sta diventando sempre più una cartina di tornasole di scambi tra nativi e conquistatori, poi sono infinite le influenze nella musica, la moda, la medicina e tanto altro. Oggi uno dei linguaggi più condivisi dai giovani online e offline, la rivoluzione che viene anche da quella ritrovata connessione con la natura, passa dal cibo, dai buongustai, dall’amore per l’autenticità, il chilometro zero. Il sillabario dei gourmant oggi vuole rilanciare il cibo dei nativi americani.

Tra le specialità tipiche un pane fritto, tanti piatti legati al mais e i suoi derivati, carne di bisonte, spezie particolari, zucca, semi, zuppe ma soprattutto una polenta speciale. E’ la cucina più antica e più giovane d’America. A Denver in Colorado c’è un ristorante molto famoso Tacobe e pian piano questa tradizione culinaria sta spopolando in giro per gli Stati Uniti. Qualcuno scatterà una foto con qualche hashtag o commento superficiale, modaiolo o magari un emoji, ma lo farà con quello stesso bisogno di fermare il tempo, fissare dei simboli e immortalare un ricordo che definisce l’alfabeto dell’umanità da sempre.

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