L’opera inizia benissimo, citando nell’ultimo movimento della Sinfonia che sfocia nel coro introduttivo il tema celeberrimo della «Primavera». È «Dorilla in Tempe», l’opera «di» Antonio Vivaldi riesumata dalla Fenice al teatro Malibran, ormai deputato al barocco. Le virgolette sono indispensabili perché «Dorilla» era senz’altro di Vivaldi, e senza virgolette, quando debuttò nel 1726, a Venezia al Sant’Angelo, il teatro di cui il prete rosso era anche impresario. Però nel ’34, dopo due riprese, nel ’28 ancora in laguna, ma al Santa Margherita, e nel ’32 a Praga, lo stesso Vivaldi la riallestì al Sant’Angelo, ma trasformandola in un pasticcio, nel senso che ci confluirono tre arie di Hasse, una di Sarro, una di Leo e tre di Giacomelli.

Nulla di scandaloso, almeno per i contemporanei (di Vivaldi, noi nonostante tutto siamo ancora vittime della nostra mentalità romantica), semmai l’ammissione di una sconfitta: per rinfrescare la sua opera, Vivaldi dovette imbottirla di brani di compositori più giovani e di scuola napoletana, segno che il derby Venezia-Napoli per lo scudetto operistico lo stava ormai vincendo Partenope. Il punto è che non sappiamo come fosse la ur-«Dorilla» tutta vivaldiana del ’26, perché l’unica partitura sopravvissuta, parzialmente autografa, è appunto quella del ’34, su cui si è basata l’incisione discografica della benemerita «Vivaldi edition» e l’attuale produzione veneziana.

E qui bisogna dire che la Fenice fa benissimo a rilanciare il Vivaldi operista, ormai tornato di moda in molta parte del mondo civilizzato: sarebbe bizzarro, e un po’ colpevole, che non succedesse anche nella sua città. L’anno scorso, sempre al Malibran, era stato presentato un notevolissimo «Orlando furioso», e con gli stessi responsabili di questa «Dorilla in Tempe»: Diego Fasolis direttore e Fabio Ceresa regista. Squadra che vince non si cambia, avranno pensato alla Fenice. Però questa volta il risultato è stato meno convincente (anche se la colpa è anche di Vivaldi e soci, perché «Dorilla» non vale l’«Orlando», che presenta la concentrazione ottima massima di hit vocali vivaldiane).

Di eccellente c’è ancora la direzione di Fasolis, energizzante come un uovo sbattuto e saporita come uno zabaione, tutta scatti e contrasti e vigore ritmico. In più, Fasolis riesce a barocchizzare il suono dell’Orchestra della Fenice, molto convincente, e dà dal podio il consueto spettacolo suonando il cembalo. Piace meno, invece, lo spettacolo di Ceresa, peraltro ben servito dalla scena unica di Massimo Cecchetto, un bianco tempietto-scalinata con statue palladiane e dai costumi molto ba-rock di Giuseppe Palella. L’«Orlando» funzionava benissimo perché introduceva su un impianto tradizionalmente fastoso e sostanzialmente statico dei tocchi di ironia che inducevano a non prendere troppo sul serio quello che a uno sguardo superficiale poteva sembrare il solito similPizzi. In questa «Dorilla» Ceresa gioca la stessa carta, ma, da un lato, ha il problema di un libretto molto più statico, dove in sostanza l’azione finisce con il primo atto e dall’altro, che la combinazione di serietà e ironia è meno calibrata: vedi il personaggio di Re Admeto che sembra quasi un personaggio di opera buffa. Lo spettacolo è quasi sempre piacevole da guardare, i mimi-danzatori della Fattoria Vittadini sono al solito bravissimi, ci sono delle buone idee (la metafora delle stagioni per il percorso di Dorilla, dalla primavera della vita all’inverno della disperazione) ma francamente capita di sbadigliare un po’. E viene colpevolmente da pensare che le quattro stagioni possono essere anche una pizza.

In ogni caso, il vero problema è la compagnia. Per l’«Orlando», la Fenice aveva riunito alcuni dei migliori giovani barocchisti italiani, compresi due eccellenti controtenori. In «Dorilla», invece, a parte un baritono il cast è soltanto femminile, con il risultato di un’inevitabile monotonia timbrica. E poi Véronique Valdès, Rosa Bove, Valeria Girardello e Michele Patti eseguono più o meno bene le loro più o meno funamboliche arie, ma sembrano anche tutti troppo concentrati nella fatica del canto per interpretare davvero. Latitano la spericolatezza, l’ironia, la sprezzatura, la capacità di «giocare» con la musica. Le eccezioni sono Manuela Custer e Lucia Cirillo, rispettivamente Dorilla e l’amato pastore Elmiro, le uniche due che riescono davvero a creare un personaggio e a non restare solo delle cantanti in costume.

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