Bernard-Henri Lévy ha pronunciato questo discorso oggi a Roma per commemorare l’anniversario del 25 aprile.

Sono felice e onorato di celebrare con i miei amici romani, tre quarti di secolo dopo, la ricorrenza del 25 aprile 1945, il giorno che vide la liberazione completa dell’Italia dal giogo e dal fango del fascismo. Ne sono felice, anzitutto, perché sono ebreo. È così tenace la leggenda dell’ebreo disarmato, sottomesso, vittima sacrificale che va alla morte come un montone al macello. Sono felice anche del fatto che mi si dia l’occasione di smentire ancora una volta questa brutta leggenda che ha fatto molto male agli ebrei in Europa.

La sollevazione del campo di Sobibor, l’insurrezione del ghetto di Varsavia. I franchi tiratori e i partigiani, gli immigrati che parteciparono alla Liberazione della Francia. E qui in Italia i combattenti della Brigata Ebraica: ragazzi arrivati dai territori che all’epoca ancora si chiamavano Palestina, equipaggiati e armati dai britannici per offrire il loro sangue, per schierare la bandiera con la stella di David accanto a quella parte di Italia che non aveva mai smesso di vedere l’assurda bestialità del fascismo al di là delle parate e dei rulli di tamburo.

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Onore a quei coraggiosi, un ringraziamento al loro eroismo e alla loro dedizione. La luce che guidava quella Brigata Ebraica era la necessità di dimostrare ai criminali che gli agnelli avevano smesso di essere massacrati, che gli ebrei non sarebbero più diventati cenere nei campi, che per loro era tempo di stare spalla a spalla con i loro fratelli cristiani. Che la libertà prevale sull’inferno.

Di questa storia sono felice anzitutto come figlio, perché tra le forze alleate che parteciparono, nel giugno 1944, alla Liberazione dell’Italia, c’era un francese che si chiamava André Lévy. Ne parlo raramente: aveva combattuto giovanissimo nelle brigate internazionali contro il fascismo in Spagna, poi si era arruolato nell’Armata d’Africa e aveva partecipato a scontri in Tunisia e in Libia. C’era anche sotto le bombe della battaglia di Monte Cassino, alle porte di Roma, dopo esser passato dall’Africa a Lampedusa e alla Sicilia. Prima di venire qui oggi ho ripensato a quell’uomo, sempre pronto a sfidare il fuoco per andare dall’altra parte delle linee nemiche a cercare i compagni feriti. Capace, poco più che bambino, di attraversare i monti Aurunci, ritenuti impraticabili, dietro i muli carichi di artiglieria.

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Tutti quei ragazzi permisero alle truppe polacche del Generale Anders di lanciare l’assalto finale e di battere la Wermacht in Italia. Oggi ho ripensato a loro mentre piantavano, sulla vetta del Monte Cassino e poi a Roma, la bandiera della libertà, quella della speranza e del sollievo. Non quella della vigliaccheria e della battaglia evitata, la bandiera del coraggio che ha pagato. La via di Roma era stata aperta, la città Eterna era stata liberata.

Sono felice di essere qui come amico di questa grande nazione, l’Italia, che, nel momento in cui il mio paese si era diviso sul destino di un capitano ebreo, fu capace di eleggere alla carica di sindaco della sua capitale un grande ebreo, Ernesto Nathan. Sappiamo tutti che un vento cattivo soffia sulla patria di Dante, del Bernini e di Primo Levi. Sappiamo che succede in tutta Europa, ma anche sulle rive del Tevere, dove si sono sempre fronteggiati la Fede e il Diritto, San Pietro e la Giustizia, l’aspirazione al cielo e lo scettro della legge, resiste una generazione dalla memoria corta che si vanta del fatto che i treni arrivino in orario, che si dice capace di resistere ai grandi cambiamenti e ai traumi dei traditori globalisti.

Questa mattina non posso non pensare anche a loro, come non posso non pensare a chi prova a minimizzare i crimini commessi dal fascismo in Italia. E non posso non inquietarmi, di fronte a migliaia di miserabili che fuggono la guerra e la carestia, di fronte alle imbarcazioni stracariche sempre vicine al naufragio, di fronte a chi - dopo essere sopravvissuto alla traversata - si vede rifiutare l’asilo da una coalizione di disgraziati in cui tutti i Paesi d’Europa hanno un posto. Non posso non inquietarmi per questi Cerberi dell’italianità, quasi altrettanto crudeli dei loro predecessori maniaci dell’olio di ricino.

Donne e uomini d’Italia, figli del 25 aprile 1945, non avete ereditato dai vostri gloriosi antenati un sentimento di umanità e di fratellanza? Nel momento in cui l’Europa, terra natale delle libertà e culla dei Diritti dell’uomo, viene criticata dai suoi stessi componenti, nel momento in cui i suoi valori vengono attaccati qui a Roma e ovunque in Europa, la memoria del 25 aprile e la commemorazione di oggi ritrovano il loro significato originario. Non si tratta solo di memoria.

Non ci basta celebrare gli antifascisti, gli uomini e le donne della Resistenza, i partigiani che si sacrificarono per la libertà dell’Italia - penso alle Fosse Ardeatine, a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto -, altre battaglie per la libertà sono di fronte a noi. Perché la nostra casa, l’Europa brucia. I fuochi dell’odio si stanno riaccendendo dappertutto, nuovi pastori soffiano di nuovo sulle braci della rabbia, del fanatismo e della xenofobia.

Tocca a noi fermare il fuoco. Tocca a noi opporre al fuoco la luce della vittoria europea del 1945; la luce dell’intelligenza vittoriosa della stupidità; il coraggio vittorioso sulla codardia, la libertà che trionfa sulla pulsione di morte. Per noi, in questo anniversario, dare gloria ai combattenti, ebrei e non ebrei, che hanno portato il grande popolo italiano fuori dalla sordida e bestiale trappola criminale nella quale era stata rinchiusa dal suo stesso desiderio di servitù non meno che dalla disgrazia delle armi e dalle astuzie del diavolo.

Viva la Repubblica, viva l’Italia, viva l’Europa.

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