il mercato

Gli errori (altrui) dietro il successo di nexi

di Alessandro Penati

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3' di lettura

La recente quotazione di Nexi è significativa per molti aspetti. A prescindere da un prezzo di collocamento troppo elevato (il titolo ha già perso quasi l’8%), la società ha raccolto 2,3 miliardi: segno che la nostra Borsa funziona; e che c’è ampia disponibilità di capitali di rischio se a chiederli sono imprese con validi progetti di crescita.

Nexi nasce e cresce attraverso l’acquisizione e l’aggregazione di società di servizi bancari da parte di fondi di private equity. La dimostrazione della complementarietà tra il mercato privato dei capitali e quello pubblico (la Borsa), ma soprattutto dell’importanza che il private equity riveste nel processo di aggregazione e ristrutturazione, oggi indispensabile in quasi tutti i settori per poter raggiungere le economie di scala e l’efficienza necessarie a competere in un mondo globalizzato. Una lezione per i nostri imprenditori, che troppo spesso sacrificano la crescita dimensionale e le aggregazioni al mantenimento del controllo.

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Le acquisizioni di Nexi sono state finanziate prevalentemente da 2,6 miliardi di debito sotto forma di obbligazioni e collocamento privato. Un segno che, se si hanno validi progetti di investimento, si può fare a meno delle banche perché il mercato del credito non bancario si sta espandendo rapidamente anche nell’Eurozona .

L’aspetto più significativo è però la natura del business di Nexi. La società nasce da quella che una volta si chiamava Istituto centrale banche popolari italiane (Icbpi) che forniva servizi al sistema bancario fra i quali la CartaSì, il sistema per il trasferimento interbancario dei fondi e dei dati per i bonifici, la gestione dei Pos per il commercio, degli sportelli bancomat e la tecnologia per l’accesso al sistema unico di pagamenti dell’Eurozona (Sepa). Le banche azioniste hanno ceduto Icbpi ai fondi di private equity nel 2015. Il nuovo socio di controllo di Nexi continua la politica di acquisizione di società di servizi dalle banche, come il sistema di pagamenti Setefi da Banca Intesa, o quelli di merchant acquiring (gestisce tutti i pagamenti tramite carte per conto dei commercianti) da Mps e Deutsche Bank, o le soluzioni di pagamento automatizzate di Bassilichi (venduta dall’omonima famiglia, insieme a diverse banche). Inoltre, sviluppa in proprio e lancia servizi come XPay per pagamenti da mobile e di e-commerce, instant payments, sistemi di pagamento virtuali, o pagamenti elettronici per i bollettini postali e la pubblica amministrazione.

Dunque, Nexi nasce e si sviluppa principalmente nei servizi alla base dell’architettura del sistema dei pagamenti, il segmento a più alto tasso di crescita e di contenuto tecnologico dell’industria bancaria, spesso acquistando le società che li gestiscono proprio dal sistema bancario. Oggi, Nexi ha una redditività attesa sul capitale del 14%: più che doppia di quella delle principali cinque banche italiane. Nessuna sorpresa quindi che il mercato valuti Nexi 4 volte il suo patrimonio netto, rispetto a una media di 0,5 delle nostre banche.

Se la tendenza delle banche a uscire dal segmento dei servizi e sistemi di pagamento appare poco comprensibile alla luce delle sue prospettive di crescita, ancora meno lo è la strategia generale delle banche italiane: cedere attività (non solo servizi di pagamento, ma anche società di gestione, di credito al consumo, leasing, assicurazioni, banca depositaria) per aumentare la patrimonializzazione grazie al guadagno in conto capitale generato dalla cessione. Una politica miope, peraltro incoraggiata dalle autorità di regolamentazione, che sacrifica la redditività futura, cioè la migliore garanzia di stabilità per il sistema.

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