Non in suo nome

«Ebba è stata vendicata». Quando la signora e il signor Åkerlund hanno saputo che il cacciatore neozelandese di scalpi islamici agitava il fantasma della loro bambina come movente della mattanza nelle moschee di Christchurch, si sono sentiti riafferrare dentro il gorgo. Era un giorno di primavera di due anni fa, e Ebba Åkerlund si trovava a passeggio per la via pedonale più sicura di Stoccolma, quindi del mondo. Stava tornando a casa da scuola. Non ha sentito il rombo del camion guidato dal terrorista uzbeko che ruggiva alle sue spalle. Non l’ha sentito perché Ebba era sorda. Da quel momento i siti nazistoidi di ogni continente, Oceania compresa, hanno estorto il suo volto immacolato per eccitare gli animi ariani alla ritorsione, mentre la sua tomba veniva ripetutamente profanata da un clandestino psicopatico che l’imbelle polizia svedese si guardava bene dal neutralizzare. L’assassino di Ebba aveva voluto vendicare l’uccisione dei soldati dell’Isis in Siria e adesso la ruota dell’odio stava usando l’immagine di un’innocente per produrre nuovi cadaveri che qualcun altro, un giorno, avrebbe cercato di vendicare. Serviva un urlo di umanità per spezzare la catena, per togliere almeno un alibi al male. La madre e il padre di Ebba hanno capito che quell’urlo toccava a loro. «Nessuno potrà mai uccidere nel nome di nostra figlia», hanno gridato.

Il resto è silenzio.

16 marzo 2019, 07:00 - modifica il 16 marzo 2019 | 07:05

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