13 febbraio 2019 - 22:05

Un unico imputato ma tanti responsabili. Se finisce alla sbarra la coscienza del Paese

I 600 mila invisibili, tra cattiva accoglienza e ipocrisia

di Goffredo Buccini

Un unico imputato ma tanti responsabili. Se finisce alla sbarra la coscienza del Paese
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Un imputato in carne e ossa e molti convitati di pietra. Il processo a Macerata per la morte di Pamela Mastropietro, un anno dopo i terribili fatti del gennaio-febbraio 2018 che strapparono un velo sul disagio profondo dell’Italia, non è soltanto il passaggio canonico attraverso il quale rendere giustizia alla ragazzina romana e alla sua famiglia. Può essere anche un doloroso ma prezioso momento di verità per tutti, di confronto non fazioso. E questo purché si abbia l’onestà di cercarla davvero, quella verità, al di là delle carte d’inchiesta che non sembrano lasciare molto margine all’unico accusato, Innocent Oseghale. Davanti alla Corte d’assise c’è ovviamente da stabilire, e modulare, una responsabilità penale, la quale, sappiamo, è personale. Il giovane spacciatore nigeriano, in Italia dal 2014, deve rispondere dello stupro e dell’omicidio di Pamela e dello scempio del suo cadavere, sezionato e abbandonato in due valigie lungo una strada fuori città. Solo quest’ultimo reato ammette Oseghale, sostenendo, contro le perizie della Procura, che la diciottenne dell’Appio-Latino sia morta per overdose (nella casa di via Spalato 124 dove lui l’avrebbe condotta). Ferma restando l’enorme distanza tra le due ipotesi, qui si fatica a rammentare la pur doverosa presunzione d’innocenza: poiché è inconfutabile che se Pamela non avesse incontrato Oseghale ai Giardini Diaz di Macerata, sarebbe ancora viva; l’imputato è, per sua stessa ammissione, colui che le ha fornito la droga e il luogo dove iniettarsela e, se è la droga ad avere ucciso la ragazza, come lui sostiene, è lui stesso, da pusher, ad averne determinato il destino. Naturalmente la parola sta ai giudici. Ma ci muoviamo, fin qui, nell’ambito della responsabilità penale.

I livelli di responsabilità

C’è poi un livello diverso di responsabilità e discende dalla circostanza che Oseghale non doveva affatto trovarsi ai Giardini Diaz: doveva stare in carcere o al suo Paese con un rimpatrio coatto, essendo stato un anno prima già colto in flagranza di spaccio, subito scarcerato e però espulso per questo dallo Sprar, il centro per richiedenti asilo nel quale peraltro s’era integrato pochissimo. Tale responsabilità è politica. Perché, una volta messo fuori dal sistema Sprar, il giovane nigeriano è semplicemente sparito: diventando un fantasma tra noi e, in tal senso, anche un archetipo dei 600 mila invisibili che la nostra mala accoglienza ha prodotto in questi anni in Italia. La madre di Pamela una volta ha detto che l’omicidio di sua figlia è un delitto delle istituzioni: formula stonata, persino naif in bocca a una mamma semplice ed emotiva, eppure a suo modo non così lontana dal vero. Pamela è infatti vittima di quel pessimo meccanismo che butta in strada i migranti che non può contenere nei centri, dando loro una… draconiana pacca sulla spalla e la raccomandazione di lasciare l’Italia entro sette giorni. Una vera fucina di clandestinità, che sfornerà, secondo autorevoli istituti come l’Ispi, ancor più irregolari nei prossimi mesi a causa della legge Salvini, dura nelle enunciazioni ma assai inefficace se non accompagnata da un immane lavoro di polizia e accordi di rimpatrio ben al di là da venire. C’è infine un’ultima responsabilità, più ambigua e tutta successiva: quella morale. E tocca i tanti che, per Pamela come per Desirée Mariottini, altra giovanissima morta a Roma lo scorso ottobre in circostanze quasi identiche, se la sono cavata scrollando le spalle perché «una tossica se li cerca i guai». E allontanando così, talvolta con infame cinismo politico, i riflettori da un imbarazzante effetto collaterale dell’immigrazione non gestita: l’insicurezza. Come se una nostra figlia problematica potesse essere caccia libera nelle strade d’Italia. No, davvero non c’è solo Oseghale, su quel banco degli imputati a Macerata.

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