Al solito, il meglio è l’inizio: Baglioni in smoking metallizzato (carta stagnola? Mago di Oz?) che canta «Acqua dalla luna» con orchestra e corpo di ballo fantastici. Poi, ventiquattro duetti. Non dieci, quindici, venti: ventiquattro. Quanto a sadismo, nemmeno Wagner era mai arrivato a tanto. Eppure la formula è tassativa: tutte le canzoni di questo interminabile festival devono essere ri-eseguite non solo dai loro legittimi cantanti, e sarebbe già grave, ma anche dai loro colleghi, sodali, amici. Baglioni la rimena con l’«armonia» di tutte le arti (Gesamtkunstwerk, per restare appunto a Wagner, il secondo più prolisso della storia dopo Claudio magno) e poi dà i numeri: 24 cantanti, 32 ospiti, totale 56 cantanti. Gesù.

Poi, ovviamente, c’è di tutto, e anche decisamente di più: il buono, il meno buono, il terribile e quelli del Volo, che nemmeno il violino di Alessandro Quarta riesce a rendere umani. Certo, uno vede Federica Carta e Shade insieme con Cristina D’Avena sotto un cappello a tesa larga e pensa che l’Isis non era poi così male; sopporta perfino Motta con Nada e Irama con Noemi (non è un duetto, è uno scioglilingua), ma poi arriva Luciano Ligabue, «secondo Sanremo che faccio in trent’anni», ipse dixit, e la serata prende subito, diciamo così, un altro respiro. Da solo il Liga fa Luci d’America e Urlando contro il cielo. Invece per omaggiare Guccini Dio è morto lo canta con Baglioni, che forse considera autobiografico il titolo, e l’Ariston esplode, «Li-ga!», «Li-ga!» (il Festivalone è anche politicamente sempre sul pezzo: basta cambiare una vocale...). Dio sarà magari morto a Correggio, ma a Sanremo è vivo e canta insieme a noi.

E vabbé, poi si ricomincia, implacabili. Patty Pravo, sempre più stralunata, arriva apparentemente in ritardo, a canzone iniziata, dice «Ciao» e attacca con Giovanni Caccamo che sembra funzionare più che il suo badante in carica, Briga. Poi farnetica anche con la Raffaele nel suo birignao abituale. Anche i Negrita piacciono, loro sono già di tre da soli, arrivano anche Enrico Ruggeri e Roy Paci, insomma è un duetto in cinque. E Arisa con Tony Hadley, ex frontman degli Spandau Ballet, offre una doppia delizia: l’itagliese di lui, che fa subito Hollywood sul Tevere o Mal, e il balletto dei Kataklò, plastici e acrobatici intorno alla coppia gorgheggiante.

Poi Mahmood con Gué Pequeno imbolsito, Francesco Renga con Bungaro e le star del balletto Eleonora Abbagnato e Vogel, Nek con Neri Marcoré, The Zen Circus con Brunori Sas, Loredana Berté con Irene Grandi in mesmerica gara a chi strilla di più, Daniele Silvestri che già duettava con Rancore interzettato con Manuel Agnelli, Paola Turci con Giuseppe Fiorello, perfino Morgan riesumato per duettare con Achille Lauro, e un po’ indeciso se suonare il pianoforte o il basso, insomma una lista che sembra infinita e a un certo punto lo diventa. Ah, c’è anche il vincitore di «X Factor», Anastasio (da solo, per fortuna) e via inoltrandosi fino a ore in cui le gente perbene è già in fase rem.

È chiaro che per lo spettacolo non resta tempo. A parte un imbarazzante numero con il direttore artistico, la Raffaele è come la temperatura di Campobasso, non pervenuta, Bisio purtroppo sì, mentre i bolerini sberluccicanti di Baglioni sono sempre più inquietanti (ma chi lo veste, Sbirulino?), e un pensiero va al ponte di Genova, «la morte e la vita, la memoria delle 43 vittime e l’idea di un futuro migliore unite dalla stessa immagine». E per un istante perfino questa deplorevole insulsaggine di Sanremo diventa un pezzo di quella cosa disperante, meravigliosa e fragile che si chiama Italia.

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